PAOLO BORSELLINO

PAOLO BORSELLINO

(Palermo, 19 gennaio 1940Palermo, 19 luglio 1992) è stato un magistrato italiano, vittima della mafia. È considerato un eroe italiano, come Giovanni Falcone, di cui fu amico e collega.

Figlio di Diego e di Maria Lepanto, Paolo Emanuele Borsellino nacque a Palermo nel quartiere popolare La Kalsa, in cui vivevano tra gli altri anche Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta. La famiglia di Paolo era composta dalla sorella maggiore Adele (11 gennaio 1938-18 aprile 2011), il fratello minore Salvatore (1942) e l'ultimogenita Rita (1945).

Dopo aver frequentato le scuole dell'obbligo Borsellino si iscrisse al liceo classico "Giovanni Meli" di Palermo. Durante gli anni del liceo diventò direttore del giornale studentesco "Agorà".

L'11 settembre 1958 si iscrisse a Giurisprudenza a Palermo con numero di matricola 2301 Dopo una rissa tra studenti "neri" e "rossi" finì erroneamente anche lui di fronte al magistrato Cesare Terranova, cui dichiarò la propria estraneità ai fatti. Il giudice sentenziò che Borsellino non era implicato nell'episodio. Proveniente da una famiglia con simpatie politiche di destra, nel 1959 si iscrisse al Fronte Universitario d'Azione Nazionale, organizzazione degli universitari missini di cui divenne membro dell'esecutivo provinciale, e fu eletto come rappresentante studentesco nella lista del FUAN "Fanalino" di Palermo

Il 27 giugno 1962, all'età di ventidue anni, Borsellino si laureò con 110 e lode con una tesi su "Il fine dell'azione delittuosa" con relatore il professor Giovanni Musotto. Pochi giorni dopo, a causa di una malattia, suo padre morì all'età di cinquantadue anni. Borsellino si impegnò allora con l'ordine dei farmacisti a mantenere attiva la farmacia del padre fino al raggiungimento della laurea in farmacia della sorella Rita. Durante questo periodo la farmacia fu data in gestione per un affitto bassissimo, 120.000 lire al mese e la famiglia Borsellino fu costretta a gravi rinunce e sacrifici. A Paolo fu concesso l'esonero dal servizio militare poiché egli risultava "unico sostentamento della famiglia".

Nel 1967 Rita si laureò in farmacia e il primo stipendio da magistrato di Paolo servì a pagare la tassa governativa.

Il 23 dicembre 1968 sposò Agnese Piraino Leto, figlia di Angelo Piraino Leto, a quel tempo magistrato, presidente del tribunale di Palermo. Dalla moglie Agnese ebbe tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta.

Nel 1963 Borsellino partecipò al concorso per entrare in magistratura; classificatosi venticinquesimo sui 171 posti messi a bando con il voto di 57, divenne il più giovane magistrato d'Italia Iniziò quindi il tirocinio come uditore giudiziario e lo terminò il 14 settembre 1965 quando venne assegnato al tribunale di Enna nella sezione civile. Nel 1967 fu nominato pretore a Mazara del Vallo. Nel 1969 fu pretore a Monreale, dove lavorò insieme ad Emanuele Basile, capitano dei Carabinieri. Proprio qui ebbe modo di conoscere per la prima volta la nascente mafia dei corleonesi

Il 21 marzo 1975 fu trasferito a Palermo ed il 14 luglio entrò nell'ufficio istruzione affari penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con Chinnici si stabilì un rapporto, più tardi descritto dalla sorella Rita Borsellino e da Caterina Chinnici, figlia del capo dell'Ufficio, come di "adozione" non soltanto professionale. La vicinanza che si stabilì fra i due uomini e le rispettive famiglie fu intensa e fu al giovane Paolo che Chinnici affidò la figlia, che abbracciava anch'essa quella carriera, in una sorta di tirocinio. Nel febbraio 1980 Borsellino fece arrestare i primi sei mafiosi tra cui Giulio Di Carlo e Andrea Di Carlo legati a Leoluca BagarellaGrazie all'indagine condotta da Basile e Borsellino sugli appalti truccati a Palermo a favore degli esponenti di Cosa Nostra si scopre il fidanzamento tra Leoluca Bagarella e Vincenza Marchese sorella di Antonino Marchese, altro importante Boss.Il 4 maggio 1980 Emanuele Basile fu assassinato e fu decisa l'assegnazione di una scorta alla famiglia Borsellino.

l pool antimafia

In quell'anno si costituì il "pool" antimafia nel quale sotto la guida di Chinnici lavorarono alcuni magistrati (fra gli altri, Falcone, Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Giovanni Barrile) e funzionari della Polizia di Stato (Cassarà e Montana).

Nel racconto che ne fece lo stesso Borsellino, il pool nacque per risolvere il problema dei giudici istruttori che lavoravano individualmente, separatamente, ognuno "per i fatti suoi", senza che uno scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di materie contigue potesse consentire, nell'interazione, una maggiore efficacia con un'azione penale coordinata capace di fronteggiare il fenomeno mafioso nella sua globalità[7]. Uno dei primi esempi concreti del coordinamento operativo fu la collaborazione fra Borsellino e l'appena "acquisito" Di Lello, che Chinnici aveva voluto e richiesto in squadra: Di Lello prendeva giornalmente a prestito la documentazione che Borsellino produceva e gliela rendeva la mattina successiva, dopo averla studiata come fossero "quasi delle dispense sulla lotta alla mafia". E presto, senza che le note divergenze politiche potessero essere di più che mera materia di battute, anche fra i due il legame professionale si estese all'amicizia personale Del resto era proprio la formazione di una conoscenza condivisa uno degli effetti, ma prima ancora uno degli scopi, della costituzione del pool: come ebbe a dire Guarnotta, si andava ad esplorare un mondo che sinora era sconosciuto per noi in quella che era veramente la sua essenza

Nel pool andò formandosi una "gerarchia di fatto", come la chiamò Di Lello: fondata sulle qualità personali di Falcone e Borsellino, tributari di questa leadership per superiori qualità - sempre secondo lo stesso collega - di "grande intelligenza, grandissima memoria e grande capacità di lavoro"; ed i colleghi non l'avrebbero discussa, questa supremazia, anche per il timore di essere sfidati a sostituirli

Tutti i componenti del pool chiedevano espressamente l'intervento dello Stato, che non arrivò. Qualcosa faticosamente giunse nel 1982, a prezzo però di nuovo altro sangue "eccellente", quando dopo l'omicidio del deputato comunista Pio La Torre, il ministro dell'interno Virginio Rognoni inviò a Palermo il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio in Sicilia e contro la mafia aveva iniziato la sua carriera di ufficiale, nominandolo prefetto. E quando anche questi trovò la morte, 100 giorni dopo, nella strage di via Carini, il parlamento italiano riuscì a varare la cosiddetta "legge Rognoni-La Torre" con la quale si istituiva il reato di associazione mafiosa (l'articolo 416 bis del codice penale) che il pool avrebbe sfruttato per ampliare le investigazioni sul fronte bancario, all'inseguimento dei capitali riciclati; era questa la strada che Giovanni Falcone ed i suoi colleghi del pool maggiormente intendevano seguire, una strada anni prima aperta dalle indagini finanziarie di Boris Giuliano (sul cui omicidio investigava il capitano Basile quando fu a sua volta assassinato) a proposito dei rapporti fra il capomafia Leoluca Bagarella ed il losco finanziere Michele Sindona.

Il 29 luglio 1983 fu ucciso Rocco Chinnici, con l'esplosione di un'autobombe e pochi giorni dopo giunse a Palermo da Firenze Antonino Caponnetto. Il pool chiese una mobilitazione generale contro la mafia. Nel 1984 fu arrestato Vito Ciancimino, mentre Tommaso Buscetta ("Don Masino", come era chiamato nell'ambiente mafioso), catturato a San Paolo del Brasile ed estradato in Italia, iniziò a collaborare con la giustizia.

Buscetta descrisse in modo dettagliato la struttura della mafia, di cui fino ad allora si sapeva ben poco. Nel 1985 furono uccisi da Cosa Nostra, a pochi giorni l'uno dall'altro, il commissario Giuseppe Montana ed il vice-questore Ninni Cassarà Falcone e Borsellino furono per sicurezza trasferiti nella foresteria del carcere dell'Asinara, nella quale iniziarono a scrivere l'istruttoria per il cosiddetto "maxiprocesso", che mandò alla sbarra 475 imputati. Si seppe in seguito che l'amministrazione penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese ed un indennizzo per il soggiorno trascorso

A Marsala

Borsellino chiese ed ottenne (il 19 dicembre 1986) di essere nominato Procuratore della Repubblica di Marsala. La nomina superava il limite ordinariamente vigente del possesso di alcuni requisiti principalmente relativi all'anzianità di servizio

Secondo il collega Giacomo Conte la scelta di decentrarsi e di assumere un ruolo autonomo rispondeva ad una sua intuizione per la quale l'accentramento delle indagini istruttorie sotto la guida di una sola persona esponeva non solo al rischio di una disorganicità complessiva dell'azione contro la mafia, ma anche a quello di poter facilmente soffocare questa azione colpendo il magistrato che ne teneva le fila; questa collocazione, "solo apparentemente periferica", fu secondo questo autore esempio della proficuità di questa collaborazione a distanza.

Di parere difforme fu Leonardo Sciascia, scrittore siciliano, il quale in un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera il 10 gennaio del 1987, si scagliò contro questa nomina invitando il lettore a prendere atto che "nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso", a conclusione di un'esposizione principiata con due autocitazioni Si tratta della nota polemica sui cosiddetti "professionisti dell'antimafia". Borsellino commentò (o lo citò) solo dopo la morte di Falcone, parlando il 25 giugno 1992 ad un dibattito, organizzato da La Rete e da MicroMega, sullo stato della lotta alla mafia dopo la Strage di Capaci

Secondo Umberto Lucentini, uno dei suoi biografi, Borsellino si era invece reso conto della crescente importanza delle cosche trapanesi, e di Totò Riina e Bernardo Provenzano, all'interno della rete criminale Cosa Nostra, che ad esempio intorno a Mazara del Vallo e nel Belice, facevano ruotare interessi notevoli che occorreva seguire da vicino

La fine del Pool ed il ritorno a Palermo

Nel 1987, mentre il maxiprocesso si avviava alla sua conclusione con l'accoglimento delle tesi investigative del pool e l'irrogazione di 19 ergastoli e 2.665 anni di pena Caponnetto lasciò il pool per motivi di salute e tutti (Borsellino compreso) si attendevano che al suo posto fosse nominato Falcone, ma il Consiglio Superiore della Magistratura non la vide alla stessa maniera e il 19 gennaio 1988 nominò Antonino Meli; sorse il timore che il pool stesse per essere sciolto.

Borsellino parlò allora in pubblico a più riprese, raccontando quel che stava accadendo alla procura di Palermo. In particolare, in due interviste rilasciate il 20 luglio 1988 a la Repubblica ed a L'Unità, riferendosi al CSM, dichiarò tra l'altro espressamente: "si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all'Ufficio", "hanno disfatto il pool antimafia", "hanno tolto a Falcone le grandi inchieste", "la squadra mobile non esiste più", "stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa". Per queste dichiarazioni rischiò un provvedimento disciplinare (fu messo sotto inchiesta) A seguito di un intervento del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, si decise almeno di indagare su ciò che succedeva nel palazzo di Giustizia.

Il 31 luglio il CSM convocò Borsellino, il quale rinnovò accuse e perplessità. Il 14 settembre Antonino Meli, sulla base di una decisione fondata sulla mera anzianità di ruolo in magistratura, fu nominato capo del pool; Borsellino tornò a Marsala, dove riprese a lavorare alacremente insieme a giovani magistrati, alcuni di prima nomina. Iniziava in quei giorni il dibattito per la costituzione di una Superprocura e su chi porvi a capo, nel frattempo Falcone fu chiamato a Roma per assumere il comando della direzione affari penali e da lì premeva per l'istituzione della Superprocura.

Nel settembre 1990 intervenne alla festa nazionale del Fronte della Gioventù a Siracusa, insieme al parlamentare regionale del MSI Giuseppe Tricoli, e agli allora dirigenti giovanili Gianni Alemanno e Fabio Granata

Con Falcone a Roma, Borsellino chiese il trasferimento alla Procura di Palermo e l'11 dicembre 1991 vi ritornò come Procuratore aggiunto, insieme al sostituto Antonio Ingroia.

Il cammino segnato

Nel settembre del 1991, la mafia aveva già abbozzato progetti per l'uccisione di Borsellino. A rivelarlo fu Vincenzo Calcara, picciotto della zona di Castelvetrano cui la Cupola mafiosa, per bocca di Francesco Messina Denaro (capo della cosca di Trapani), aveva detto di tenersi pronto per l'esecuzione, che si sarebbe dovuta effettuare o mediante un fucile di precisione, o con un'autobomba. Assai onorato dell'incarico, che gli avrebbe consentito la scalata di qualche gradino nella gerarchia mafiosa, il mafioso attendeva l'ordine di entrare in azione come cecchino qualora si fosse propeso per questa soluzione.

Ma Calcara fu arrestato il 5 novembre e la sua situazione in carcere si fece assai pericolosa poiché, secondo quanto da lui stesso indicato, aveva in precedenza intrecciato una relazione con la figlia di uno dei capi di Cosa Nostra, uno sbilanciamento del tutto contrario alle "regole" mafiose e sufficiente a costargli la vita; se da latitante poteva ancora essere utilizzato per "lavori sporchi", da carcerato invece gli restava solo la condanna a morte emessa dall'organizzazione. Prima che finisse il periodo di isolamento, Calcara decise di diventare collaboratore di giustizia e si incontrò proprio con Borsellino, al quale, una volta rivelatogli il piano e l'incarico, disse: "lei deve sapere che io ero ben felice di ammazzarla". Dopo di ciò, raccontò sempre il pentito, gli chiese di poterlo abbracciare e Borsellino avrebbe commentato: "nella mia vita tutto potevo immaginare, tranne che un uomo d'onore mi abbracciasse

Soltanto nel 2012 si è venuto a sapere, da una rivelazione rilasciata in tribunale del colonnello Umberto Sinico, sentito come testimone, che Borsellino non solo era a conoscenza di essere nel mirino di Cosa Nostra, ma che preferiva che non si stringesse troppo la protezione attorno a sé, così da evitare che Cosa Nostra scegliesse come bersaglio qualcuno della sua famiglia

Il pomeriggio del 19 maggio 1992, nel corso dell'XI scrutinio delle elezioni presidenziali, l'allora segretario del MSI Gianfranco Fini diede indicazione ai suoi parlamentari di votare per Paolo Borsellino come Presidente della Repubblica, che ottenne in quello scrutinio 47 preferenze.

Il 23 maggio 1992 nell'attentato di Capaci persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo

Dichiarazioni e rifiuti

Borsellino rilasciò interviste e partecipò a numerosi convegni per denunciare l'isolamento dei giudici e l'incapacità o la mancata volontà da parte della politica di dare risposte serie e convinte alla lotta alla criminalità. In una di queste Borsellino descrisse le ragioni che avevano portato all'omicidio del giudice Rosario Livatino e prefigurò la fine (che poi egli stesso fece) che ogni giudice "sovraesposto" è destinato a fare.

Alla presentazione di un libro alla presenza dei ministri dell'interno e della giustizia, Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, nonché del capo della polizia Vincenzo Parisi, dal pubblico fu chiesto a Borsellino se intendesse candidarsi alla successione di Falcone alla "Superprocura"; alla sua risposta negativa Scotti intervenne annunciando di aver concordato con Martelli di chiedere al CSM di riaprire il concorso ed invitandolo formalmente a candidarsi. Borsellino non rispose a parole Rispose al ministro per iscritto, giorni dopo: "La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento"

La penultima intervista di Borsellino e le sue versioni

Due mesi prima di essere ucciso, Paolo Borsellino rilasciò un'intervista ai giornalisti di Canal+ Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi (21 maggio 1992) L'intervista mandata in onda da Rai News 24 nel 2000 era di trenta minuti, quella originale era invece di cinquantacinque minuti.

In questa sua ultima intervista Paolo Borsellino parlò anche dei legami tra la mafia e l'ambiente industriale milanese e del Nord Italia in generale, facendo riferimento, tra le altre cose, a indagini in corso sui rapporti tra Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri.

Alla domanda se Mangano fosse un "pesce pilota" della mafia al Nord, Borsellino rispose che egli era sicuramente una testa di ponte dell'organizzazione mafiosa nel Nord d'Italia. Sui rapporti con Silvio Berlusconi invece, benché esplicitamente sollecitato dall'intervistatore, si astenne da qualsiasi giudizio.

Paolo Guzzanti aveva sostenuto che l'intervista trasmessa da Rai News 24 era stata manipolata, i giornalisti della rete gli fecero causa, ma fu assolto. Vi era corrispondenza tra la cassetta ricevuta ed il contenuto trasmesso, ma non con il video originale. Alcune risposte erano state tagliate e messe su altre domande. Ad esempio, quando Borsellino parla di "cavalli in albergo" per indicare un traffico di droga, non si riferiva ad una telefonata fra Dell'Utri e Mangano come poteva sembrare dalla domanda dell'intervistatore (che faceva riferimento ad un'intercettazione dell'inchiesta di San Valentino, che Borsellino aveva seguito solo per poco tempo), ma ad una fra Mangano e un mafioso della famiglia Inzerillo

Nel numero de L'Espresso dell'8 aprile 1994 fu pubblicata una versione più estesa dell'intervista

L'intervista, e i tagli relativi alla sua versione televisiva, furono citati anche dal tribunale di Palermo nella sentenza di condanna di Gaetano Cinà e Marcello Dell'Utri

Nella sentenza fu poi riportato il brano dell'intervista relativo all'uso del termine "cavalli" per indicare la droga e sulle precedenti condanne di Mangano, in una versione ancora differente rispetto alle due già diffuse, trascritta dal nastro originale. Nella stessa sentenza era poi riportata l'intercettazione della telefonata intercorsa tra Mangano (la cui linea era sotto controllo) e Dell'Utri, relativo al blitz di San Valentino, in cui veniva citato un "cavallo", a cui aveva fatto riferimento il giornalista nelle domande dell'intervista a Borsellino

Venerdì 18 dicembre 2009 Il Fatto Quotidiano pubblica il dvd Paolo Borsellino. L’intervista nascosta contenente la versione integrale, filmata, dell'intervista al giudice con una prefazione di Marco Travaglio

La strage di via d'Amelio

Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove viveva sua madre.

Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa 100 kg di esplosivo a bordo detonò al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta

Il 24 luglio diecimila persone partecipano ai funerali privati di Borsellino (i familiari rifiutarono il rito di Stato, poiché la moglie Agnese Borsellino, accusava il governo di non aver saputo proteggere il marito, voleva una cerimonia privata senza la presenza dei politici), celebrati nella chiesa di Santa Maria Luisa di Marillac, disadorna e periferica, dove il giudice era solito sentir messa, quando poteva, nelle domeniche di festa. L’orazione funebre la pronuncia Antonino Caponnetto, il vecchio giudice che diresse l’ufficio di Falcone e Borsellino: «Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi». Pochi i politici: il presidente Scalfaro, Francesco Cossiga, Gianfranco Fini, Claudio Martelli. Il funerale è commosso e composto, interrotto solo da qualche battimani. Qualche giorno prima, i funerali dei 5 agenti di scorta si svolsero nella Cattedrale di Palermo, ma all'arrivo dei rappresentanti dello stato (compreso il neo Presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro), una folla inferocita sfondò la barriera creata dai 4000 agenti chiamati per mantenere l'ordine, la gente mentre strattonava e spingeva, gridava "FUORI LA MAFIA DALLO STATO". Il Presidente della Repubblica venne tirato fuori a stento dalla calca, venne spintonato anche il capo della polizia.

Pochi giorni prima di essere ucciso, durante un incontro organizzato dalla rivista MicroMega, così come in una intervista televisiva a Lamberto Sposini, Borsellino aveva parlato della sua condizione di "condannato a morte". Sapeva di essere nel mirino di Cosa Nostra e sapeva che difficilmente la mafia si lascia scappare le sue vittime designate.

Antonino Caponnetto, che subito dopo la strage aveva detto, sconfortato, "Non c'è più speranza...", intervistato anni dopo da Gianni Minà ricordò che "Paolo aveva chiesto alla questura – già venti giorni prima dell'attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l'abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze"

Una settimana dopo la strage, la giovanissima testimone di giustizia Rita Atria, che proprio per la fiducia che riponeva nel giudice Borsellino si era decisa a collaborare con gli inquirenti pur al prezzo di recidere i rapporti con la madre, si uccise.

La figura di Paolo Borsellino, come quella di Giovanni Falcone, ha lasciato un grande esempio nella società civile e nelle istituzioni.

Alla sua memoria sono state intitolate numerose scuole e associazioni, nonché (insieme all'amico e collega) l'aeroporto internazionale "Falcone e Borsellino" (ex "Punta Raisi", Palermo),un'aula della facoltà di Giurisprudenza all'Università di Roma La Sapienza e l'aula del consiglio comunale della città di Castellammare di Stabia. Anche la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Brescia ha intestato una delle sue aule più suggestive di Palazzo dei Mercanti ai giudici Falcone e Borsellino.


COS'E' IL PAPELLO?

l papello è comunemente noto come un fogliocontenente delle indicazioni

Nel giornalismo italiano del terzo millennio, il termine fa però riferimento ai tentativi di accordo tra elementi di "Cosa nostra" e pubblici ufficiali dello Stato italiano agli inizi degli anni novanta.

Le vicende di quegli anni, relative agli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e alle successive bombe del '92 e '93 di Milano, Firenze e Roma, sono state più volte oggetto di indagini che hanno coinvolto diversi personaggi, tra cui Vito Ciancimino, Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Negli anni successivi alcuni pentiti di mafia hanno rilasciato dichiarazioni tali da mettere in dubbio la versione originaria dei fatti, testimoniando il coinvolgimento di pubblici ufficiali dello Stato in una trattativa con Cosa Nostra.

Nel 2009, in relazione a tale vicenda, sono stati ascoltati come testimoni anche i politici Nicola Mancino e Luciano Violante

Secondo le dichiarazioni rilasciate da Massimo Ciancimino (figlio dell'ex-sindaco di Palermo Vito Ciancimino), la trattativa, avviata da Totò Riina e Bernardo Provenzano all'inizio degli anni novanta, sarebbe proseguita almeno fino al 2000, con l'aggiunta della partecipazione dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano

A quanto emerge dai primi risultati dell'indagine avviata nel 2009 (nella quale è stato sentito come testimone anche l'ex-ministro Claudio Martelli) la trattativa avrebbe avuto inizialmente due fasi distinte, prima e dopo le stragi che hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In entrambi i casi, emerge un ruolo attivo svolto da Vito Ciancimino.

Nell'estate del 1992, subito dopo l'uccisione del giudice Giovanni Falcone, alcuni colonnelli dei Carabinieri, tra cui Mario Mori , colonnello dei ROS, esplicitamente indicato alla fine del foglio avrebbero intentato una trattativa con i vertici di Cosa nostra per fermare l'ondata di attentati. Il documento è stato portato alla luce dal figlio di Vito Ciancimino, Massimo Ciancimino

Il contenuto del "papello"

La volontà di Cosa Nostra, allora comandata dallo stesso Riina, passò attraverso le mani di Vito Ciancimino con dodici richieste allo Stato:

  1. Revisione della sentenza del maxi-processo;
  2. Annullamento del decreto legge 41 bis;
  3. Revisione della legge Rognoni-La Torre (reato di associazione mafiosa);
  4. Riforma della legge sui pentiti;
  5. Riconoscimento dei benefici dissociati per i condannati per mafia (come per le Brigate Rosse);
  6. Arresti domiciliari dopo i 70 anni di età;
  7. Chiusura delle super-carceri;
  8. Carcerazione vicino alle case dei familiari;
  9. Nessuna censura sulla posta dei familiari;
  10. Misure di prevenzione e rapporto con i familiari;
  11. Arresto solo in flagranz] di reato;
  12. Defiscalizzazione della benzina in Sicilia (come per Aosta)

Al primo elenco di richieste, prodotte direttamente da Cosa Nostra, ne venne allegato un altro, con modifiche alle richieste prodotte da Vito Ciancimino, come mostrato dal figlio dell'ex sindaco di Palermo, che ha consegnato ai giudici che si occupano del caso entrambi i manoscritti

Il 20 ottobre 2009 l'ex colonnello dei ROS, Mario Mori, attualmente sotto processo da parte del Tribunale di Palermo insieme al colonnello Mauro Obinu (condannato in primo grado a oltre sette anni di reclusione in un procedimento separato per traffico di droga, assieme al generale Ganzer, succeduto a Mori alla guida del ROS) per favoreggiamento alla mafia a causa della mancata cattura, nel 1995, di Bernardo Provenzano, ha dichiarato al tribunale di Palermo che non ci fu nessuna trattativa tra la mafia e lo Stato , e in una intervista successiva, Mori ha smentito di aver mai ricevuto dalle mani di Ciancimino, né di nessun altro, il Papello, preannunciando azioni legali in merito

Anche il capitano "Ultimo", ha ritenuto non attendibili le dichiarazioni di Ciancimino sulla collaborazione tra Stato e mafia nella cattura di Riina indicando nel figlio dell'ex sindaco di Palermo un servo di Totò Riina

 

TRATTATIVA TRA STATO E COSA NOSTRA

La presunta trattativa tra Stato italiano e Cosa nostra sarebbe stata una negoziazione avvenuta all'indomani della stagione delle Bombe del '92 e '93 tra lo Stato italiano e la mafia per giungere ad un accordo che avrebbe previsto la fine della stagione stragista in cambio di un'attenuazione delle misure detentive previste dall'Articolo 41 bis. La trattativa è ancora oggetto di indagini giudiziarie ed è stata parzialmente dichiarata reale nella motivazione della sentenza del processo a Francesco Tagliavia per le bombe del '92 e '93.Secondo tale sentenza l'iniziativa per la trattativa "fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia" e comunque ad oggi (2012) tale negoziazione non è stata dimostrata anzi, risulta oggetto di diverse indagini, per le quali sono stati indagati diversi esponenti di Cosa nostra come Totò Riina e Bernardo Provenzano, alcuni politici tra i quali il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri il suo ex socio in affari, il finanziere Filippo Alberto Rapisarda il deputato ed ex ministro democristiano Calogero Mannino nonché alcuni appartenenti alle forze dell'ordine come il generale dei carabinieri e capo del ROS Antonio Subranni l'allora colonnello Mario Mori e il suo braccio destro al ROS, il capitano Giuseppe De Donno che disse: "Decidemmo di contattare in qualche modo la mafia attraverso Vito Ciancimino per fermare le stragi, ma non ci fu nessuna trattativa"

Attualmente (2012), si tende a ritenere che la trattativa sia avvenuta nel periodo tra la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino  e che quest'ultimo possa essere stato assassinato anche perché veniva considerato un ostacolo alla trattativa tra Stato e mafia secondo le rivelazioni ancora da accertare di Gaspare Spatuzza e di Giovanni Brusca

Nell'estate del 1992, subito dopo l'uccisione del giudice Giovanni Falcone nella strage di Capaci, alcuni ufficiali facenti parte del ROS dei Carabinieri, tra cui Mario Mori[20], avrebbero intentato una trattativa con i vertici di Cosa nostra per fermare l'ondata di attentati, come indicato nel cosiddetto "papello"[21], il presunto documento su cui vennero riportati i termini della trattativa.

Le vicende di quegli anni, relative agli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e alle successive bombe del '92 e '93 di Milano, Firenze e Roma, sono state più volte oggetto di indagini che hanno coinvolto diversi personaggi, tra cui Vito Ciancimino, Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Negli anni successivi però, dopo alcune sentenze di condanna, alcuni pentiti di mafia hanno rilasciato dichiarazioni tali da mettere in dubbio la versione originaria dei fatti, ipotizzando un coinvolgimento di pubblici ufficiali dello Stato in una trattativa con Cosa nostra. Ovviamente la magistratura sta cercando di approfondire tali dichiarazioni che potrebbero essere solo un diversivo nella strategia di difesa dei boss mafiosi.

Il 16 marzo del 1992, Vincenzo Parisi, capo della Polizia, in seguito alla propria attività investigativa, emise un comunicato, che allertava sulla possibilità di attentati e omicidi politici , riferì all'allora ministro degli interni Vincenzo Scotti sul pericolo di attentati, ma entrambi non furono creduti
Dopo le stragi degli anni '92-'93, le indagini del capo della Polizia Vincenzo Parisi, furono rivalutate ma non solo, in molti pensarono di prevenire ulteriori attentati, utilizzando l'appena istituita Direzione Investigativa Antimafia (DIA), durante il governo Andreotti VII, a firma di Claudio Martelli e che sarebbe dipesa dal Ministero dell'Interno

Primi contatti

Nel 1992, dopo la strage di Capaci del 23 maggio, il capitano del ROS Giuseppe De Donno, come egli stesso ha dichiarato incontrò Liliana Ferraro, direttore del Ministero di Grazia e Giustizia, e le parlò dei contatti con Ciancimino. Liliana Ferraro avrebbe riferito al suo diretto superiore, Claudio Martelli all'epoca Ministro di Grazia e Giustizia, il quale chiese all'allora Ministro dell'Interno Nicola Mancino come fosse possibile che alcuni uomini del ROS avessero preso l'iniziativa di usare Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, legato al Clan dei Corleonesi, per contattare i boss mafiosi scavalcando la DIA, che era istituzionalmente competente per qualsiasi azione contro la mafia.

Nel 2009, in relazione a tale vicenda, sono stati ascoltati come testimoni anche i politici Nicola Mancino, il quale ha dichiarato di non averne mai saputo nulla e Luciano Violante, il quale invece ha dichiarato di essere venuto a conoscenza di questo dialogo tra il Ros e Ciancimino

Secondo le dichiarazioni rilasciate da Massimo Ciancimino (figlio dell'ex-sindaco di Palermo Vito Ciancimino), la presunta trattativa, avviata da Totò Riina e Bernardo Provenzano all'inizio degli anni novanta, sarebbe proseguita almeno fino al 2000, con l'aggiunta della partecipazione dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano

A quanto emerge dai primi risultati dell'indagine avviata nel 2009 (nella quale è stato sentito come testimone anche l'ex-ministro Claudio Martelli) la presunta trattativa avrebbe avuto inizialmente due fasi distinte, prima e dopo le stragi che hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In entrambi i casi, emerge un ruolo attivo svolto da Vito Ciancimino.

La trattativa sarebbe stata siglata con il cosiddetto "papello", un foglio contenente le richieste di Cosa nostra allo Stato, che avrebbero dovuto essere soddisfatte per evitare la prosecuzione delle stragi di mafia. Il termine "papello", soprattutto in ambito giornalistico, fa riferimento al documento che avrebbe siglato i presunti tentativi di accordo tra elementi di Cosa nostra e pubblici ufficiali dello Stato italiano agli inizi degli anni novanta.

Il documento è stato citato per la prima volta da Massimo Ciancimino

abrogazione articolo 41 bis

La seconda richiesta del papello è "annullamento decreto legge 41 bis", che prevede il "carcere duro" per alcune categorie di crimini, tra cui la criminalità organizzata. Per questo l'indagine sulla trattativa Stato-mafia ha posto l'attenzione su episodi che lo riguardano, come il fatto che nel 1993 sono stati lasciati scadere circa trecento provvedimenti di carcere duro, come ha dichiarato l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso e sostiene che non ci fu trattativa Fu revocato l'isolamento a Totò Riina Inoltre ha coinvolto alcune persone che hanno cercato di modificare l'articolo 41 bis o che hanno avuto a che fare con l'articolo. Calogero Mannino, indagato per la trattativa, ha ricevuto un avviso di garanzia in cui "si parla genericamente di "pressioni" che Mannino avrebbe esercitato su "appartenenti alle istituzioni", sulla "tematica del 41 bis", il carcere duro che i capimafia cercavano di far revocare.". Ascoltati sull'argomento anche Carlo Azeglio Ciampi e Oscar Luigi Scalfaro, al quale fu chiesto per lettera, di revocare il decreto legge 41 bis sul carcere duro

Il 20 ottobre 2009, l'ex colonnello dei ROS, Mario Mori, imputato per favoreggiamento aggravato di Cosa nostra, ha dichiarato al tribunale di Palermo che non ci fu nessuna trattativa tra la mafia e lo Stato e in una intervista successiva, Mori ha smentito di aver mai ricevuto dalle mani di Massimo Ciancimino o di altri il presunto "papello", preannunciando azioni legali in merito

Anche il capitano "Ultimo" ha ritenuto non attendibili le dichiarazioni di Massimo Ciancimino sulla collaborazione tra Stato e mafia nella cattura di Provenzano, indicando nel figlio dell'ex sindaco di Palermo un "servo di Totò Riina"

Il pool coordinato dal procuratore aggiunto ha firmato la richiesta di processo per i dodici imputati dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Imputati i capimafia Totò Riina e Bernardo Provenzano, ma anche gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, i senatori Marcello Dell'Utri e Calogero Mannino, accusati di attentato a un corpo politico. L'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, risponde invece per falsa testimonianza

I pizzini nel contesto della mafia siciliana

I pizzini hanno avuto improvvisa notorietà in occasione dell'arresto di Bernardo Provenzano nel cui ultimo rifugio ne sono stati rinvenuti molti. Questi sono stati utilizzati per lungo tempo dai mafiosi con lo scopo di prevenire eventuali intercettazioni da parte delle forze dell'ordine, che si potrebbero avere con i mezzi di comunicazione tradizionali. Sembra sia d'uso farli passare attraverso molte mani per rendere difficile il collegamento tra il mittente e il destinatario.

Dai pizzini si ricava una chiara panoramica dei rapporti tra i differenti livelli gerarchici dell'organizzazione mafiosa (padrini, capifamiglia, picciotti). Spesso è lo stesso padrino a definirsi tale all'interno del pizzino e a rivolgersi al sottoposto chiamandolo figlioccio, riferendosi ai propri affari illeciti col termine cosa nostra.

I pizzini possono essere:

manoscritti o dattiloscritti

Anche in occasione dell'arresto di Salvatore Lo Piccolo, del figlio e dei suoi complici il 5 novembre 2007, sono stati intercettati pizzini da parte delle forze dell'ordine.