La Banda della Magliana è il nome attribuito a quella che è considerata la più potente organizzazione criminale autoctona che abbia mai operato nella città di Roma. Il nome, deriva da quello del quartiere romano della Magliana, nel quale risiedevano una parte dei suoi componenti.
Nata nella tarda metà degli anni settanta, la banda fu la prima organizzazione capitolina a percepire non solo la possibilità di unificare in senso operativo la fras criminalità romana, ma anche a sentire l’esigenza di diversificare le proprie attività delinquenziali che andavano dai sequestri di persona, al controllo del gioco d'azzardo e delle scommesse ippiche, alle rapine e al traffico di sostanze stupefacenti e sia di estendere la propria rete di contatti con le principali organizzazioni criminali del Paese, dalla Mafia alla Camorra, piuttosto che con esponenti della massoneria, oltre che a numerose collaborazioni con elementi della destra eversiva, dei servizi segreti e della finanza.
Una vera e propria holding-criminale che, per anni, impose la sua legge nella capitale e la cui storia, fatta anche di legami mai del tutto chiariti con politica e intelligence deviata, racconta di una zona grigia non ancora del tutto conoscibile nei dettagli sul ruolo dell'organizzazione in molti dei cosiddeti misteri italiani, dal coinvolgimento nell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, al legame con il sequestro Moro, ai depistaggi nella strage di Bologna, all'omicidio del banchiere Roberto Calvi, fino al rapimento di Emanuela Orlandi.
LA NASCITA DELLA BANDA
La struttura della malavita romana storicamente è sempre stata priva di un'organizzazione verticistica o piramidale, mantenendo costantemente nel tempo la dispersione dei suoi componenti in una moltitudine di piccoli gruppi, ognuno padrone del proprio territorio, le cui entrature finanziarie erano dovute a piccoli traffici, riciclaggio, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione, contrabbando di sigarette, furti e rapine. Tale consuetudine cambiò solo all'inizio degli anni settanta con l'avvento del clan dei marsigliesi di Albert Bergamelli e Jacques Berenguer che, trasferitisi nella capitale, iniziarono il business dello spaccio di eroina e dei sequestri di persona fino a quando gli arresti che decimarono il clan crearono un vuoto di potere inaspettato. Tale vuoto rese possibile l'avvento di piccoli boss romani che, fiutato l’affare, iniziarono a organizzarsi in alleanze (chiamate in gergo “paranze” o “batterie”, un nucleo di quattro o cinque elementi che si occupava di controllare la propria zona, nella quale era detenuto il potere esclusivo) coinvolgendo malavitosi provenienti dai vari quartieri capitolini come Trastevere, Testaccio, Ostiense e Magliana.
Era questa quindi la situazione nella quale Franco Giuseppucci, detto er Fornaretto e in seguito ribattezzato er Negro, un buttafuori di una sala corse di Ostia con molte conoscenze nell'ambiente della mala romana e doti di leadership e grande carisma, iniziò a compiere i primi piccoli reati e a comparire nei verbali della polizia. Vista la sua intraprendenza e considerato persona affidabile dai malavitosi più esperti, spesso e volentieri le varie batterie di rapinatori affidano proprio a lui la custodia delle loro armi che, Giuseppucci, custodiva all'interno di una roulotte di sua proprietà parcheggiata al Gianicolo. Quando però, nel 1976, tale nascondiglio venne scoperto dalla polizia, Giuseppucci fu arrestato ma, grazie al vetro rotto della roulotte, in sede processuale venne a mancare il presupposto della consapevolezza che all'interno fossero nascoste delle armi e la pena fu contenuta solo a qualche mese di detenzion
Giuseppucci, una volta scarcerato, riprese la sua attività di custode per conto terzi ma subì il furto del suo maggiolino Volkswagen, a bordo del quale si trovava una borsa piena di armi appartenente ad Enrico De Pedis (detto Renatino, un passato da scippatore per poi passare, molto presto, alle rapine a capo di una batteria di malavitosi dell’Alberone); egli, a seguito di alcune ricerche, venne a sapere che tali armi erano entrate in possesso di Emilio Castelletti, un rapinatore che all’epoca operava in una batteria che aveva come punto di ritrovo un bar sito in via Gabriello Chiabrera, nel quartiere San Paolo, e capeggiata da Maurizio Abbatino (detto Crispino per i suoi capelli ricci e noto per il sangue freddo nelle rapine e per l'abilità come pilota di auto), e fu a questi che Giuseppucci si rivolse per reclamarne la restituzione Dall'incontro tra Giuseppucci, Abbatino e De Pedis nacque l'idea sia di abbandonare definitivamente il ruolo marginale al quale erano stati relegati in passato che le divisioni di quartiere, allo scopo di unire le sorti ed appropriarsi delle attività criminali capitoline. Quella che in un primo tempo nacque come una semplice "batteria", una volta presa coscienza delle propria forza, si trasfrormò molto velocemente in una vera e propria "banda" per il controllo dei traffici illeciti romani e che, da li a poco, verrà conosciuta come Banda della Magliana.
Ognuno dei tre portò nella nuova banda, oltre che la propria esperienza nel crimine, le proprie conoscenze, nonché le armi da utilizzare nelle azioni, anche tutta una serie di fidati sodali e compagni di vecchie batterie che andarono così a formare le varie anime della Banda. Nei testaccini di Giuseppucci e De Pedis, batteria che si muoveva tra i quartieri di Trastevere e Testaccio, operavano l’amico di sempre Raffaele Pernasetti detto er Palletta, Ettore Maragnoli e Danilo Abbruciati mentre Maurizio Abbatino, che invece faceva capo proprio alla zona della Magliana, arrivarono nel gruppo Giovanni Piconi, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro, Emilio Castelletti e poi in seguito anche Marcello Colafigli, Giorgio Paradisi e Claudio Sicilia.
A questi due gruppi se ne aggiunse poi un terzo, quello proveniente dalla zona Ostia e Acilia e capeggiato da Nicolino Selis detto il Sardo: classe 1952, piccolo di statura e pieno di tatuaggi, il quale già da qualche anno aveva subito varie detenzioni ed era già una figura di spicco nel panorama criminale della zona sud della capitale, vantando numerosi contatti con elementi di spicco della malavita organizzata ed una stretta amicizia con il boss della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, conosciuto durante la detenzione in carcere. Ed è proprio tra le sbarre di Regina Coeli, dove è recluso per tentato omicidio e furto che, nel 1975, assieme a un altro detenuto comune, Antonio Mancini (detto Accattone), che Selis pensa di mettere in pratica lo stesso tipo di operazione che Cutolo sta realizzando a Napoli con la sua Nuova Camorra Organizzata. Un grande progetto criminale, un'organizzazione malavitosa ben strutturata cioè, per la gestione dello spaccio delle sostanze stupefacenti, con lo scopo ulteriore di escludere dal territorio infiltrazioni di altre bande di diversa provenienza e gettare così, dall'interno dell'istituto carcerario, le basi della trasformazione organizzativa della malavita romana, cosa che poi effettivamente avvenne, una volta liberi, con quel "patto" che, assieme agli altri due gruppi criminali, diede forma alla banda della Magliana.
Diversi uomini della batteria di Selis furono coinvolti in questo nuovo sodalizio, come suo cognato Antonio Leccese, Giuseppe Magliolo, Fulvio Lucioli (detto il Sorcio), Giovanni Girlando (il Roscio), Libero Mancone, i fratelli Giuseppe (il Tronco) e Vittorio Carnovale (detto il Coniglio) e Edoardo Toscano (Operaietto). Ognuno di loro riunirà le proprie conoscenze e, una volta usciti dal carcere, si uniranno ai testaccini e ai maglianesi per realizzare così il progetto criminale per la conquista di Roma
Gruppo della Magliana
- Maurizio Abbatino (detto Crispino) Nato nel cuore della Magliana vecchia, prima dell'incontro con Giuseppucci e già giovanissimo è a capo di una batteria di malavitosi di quartiere specializzata in rapine. Arrestato nel 1972 e nel 1974, prima per furto e resistenza a pubblico ufficiale e poi per duplice omicidio (ma poi assolto per insufficienza di prove).
- Marcello Colafigli (detto Marcellone) Amico fraterno di Giuseppucci, con cui spesso si ritrova in batteria dedita alle rapine, viene introdotto da quest'ultimo nel nucleo originario della banda.
- Claudio Sicilia (detto Il Vesuviano) Originario di Giugliano NA) e nipote del boss Alfredo Maisto, arriva a Roma nel 1978 e diventa ben presto l'anello di congiunzione della banda con la Camorra di Corrado Iacolare, Michele Zaza e Lorenzo Nuvoletta
- Giorgio Paradisi (detto Er Capece) Un nel settore delle rapine ai camion, arriva nella banda attraverso la conoscenza di Giuseppucci con cui divide la comune passione per i cavalli e la frequentazione di ippodromi, sale corse e bische.
- Renzo Danesi (detto El Caballo) Romano del Trullo, fa parte del gruppo di malavitosi dediti alle rapine che gravitano attorno alla figura di Abbatino il quale poi non mancherà, sin dall'inizio, di coinvolgerlo nel progetto criminale della banda.
- Enzo Mastropietro (detto Enzetto) Anche lui frequenta l'ambiente dei rapinatori della Magliana di Abbatino per poi entrare a far parte del nucleo storico della banda.
- Emilio Castelletti Rapinatore, assieme ad Abbatino partecipa, tra le altre cose, al tentato sequestro Pratesi che si concluse con la fuga dell'ostaggio.
- Giovanni Piconi Nel nucleo originario della banda che ruota intorno ad Abbatino.
- Roberto Giusti Cognato di Mastropietro, entra a far parte della banda per suo conto e si occupa della vendita di sostanze stupefacenti
- Gianfranco Sestili Introdotto da Colafigli con cui, poi, gestisce il controllo del mercato degli stupefacenti alla Garbatella e a Tormarancia. Più tardi opererà anche come fiancheggiatore curando il trasporto delle armi a disposizione della banda e la loro riconsegna, dopo le azioni, nel deposito presso il Ministero della Sanità.
Gruppo di Testaccio-Trastevere
- Franco Giuseppucci (detto Fornaretto e poi Er Negro) Buttafuori in una bisca clandestina ad Ostia, una grande passione per le scommesse e frequentatore di ippodromi e sale corsa romane, muove i primi passi nel mondo della mala a capo di una batteria di criminali del Trullo dedita soprattutto a furti, rapine. Fascista convinto e tramite con gli esponenti dell’eversione nera e dello spontaneismo armato dei Nuclei Armati Rivoluzionari. È il primo a percepire la possibilità di unificare operativamente la frastagliata realtà della criminalità romana.
- Enrico De Pedis (detto Renatino) Nasce come scippatore per poi passare, molto presto, alle rapine legandosi a una batteria di malavitosi dell’Alberone e nel 1977 viene arrestato. Rappresenterà il lato imprenditoriale della banda che tenta la via di smarcamento dal crimine di strada per sedersi ai tavoli del Potere grazie anche ai suoi legami con i poteri occulti, il mondo del riciclaggio e i Servizi segreti deviati.
- Danilo Abbruciati (detto Er Camaleonte) Pugile mancato, si lega prima a una batteria di rapinatori (la “Gang dei Camaleonti”) specializzata in furti nelle abitazioni, per poi entrare nel giro delle bische clandestine controllate dal clan dei Marsigliesi di Bergamelli e Berenguer. Uno dei leader del nucleo storico della banda a cui porta in dote le sue conoscenze con la mafia romana di Pippo Calò e, all'interno della quale, manterrà sempre una certa indipendenza coltivando rapporti di collaborazione con politici corrotti, estremisti di destra e mafiosi.
- Raffaele Pernasetti (detto Er Palletta) Da giovane lavora come commerciante di frattaglie all’ingrosso, prima di esordire nel crimine organizzato, introdotto da De Pedis, di cui diventerà l'uomo di fiducia e spietatissimo braccio armato.
- Ettore Maragnoli Truffatore e usuraio, si inserì nella banda dove operò nel settore della gestione del racket del gioco d'azzardo, del prestito a usura e dei videopoker.
- Ernesto Diotallevi Faccendiere e legato agli ambienti dell'estrema destra, già intorno alla metà degli anni 70 si fa conoscere per la sua attività di usuraio. Venne poi introdotto nella banda da Abbruciati come suo tramite con la mafia siciliana (per via della sua amicizia con un boss mafioso del calibro di Pippo Calò), verso altre associazioni malavitose e verso il mondo economico finanziario, nel quale vantava notevoli entrature. Col tempo, poi, andò a costituire l'anima finanziaria del gruppo di Testaccio-Trastevere, altre che a occuparsi di riciclare e investire i capitali della Magliana.
- Paolo Frau (detto Paoletto) Nato a Roma ma sempre vissuto a Ostia, con precedenti per detenzione di sostanze stupefacenti, opera come guardaspalle di Renatino De Pedis e comincia a gravitare intorno alla banda poco prima dell'omicidio di Giuseppucci e gestirà per lui il commercio di droga sul litorale romano.
- Giuseppe De Tomasi (detto Sergione) Noto, intorno alla metà degli anni settanta, per la sua attività di usuraio a Campo dei Fiori. E' il Mario che , il 28 giugno 1983, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi telefono' a casa della famiglia della ragazza.
- Francesco Zumpano e Domenico Zumpano Introdotti nella banda da Giuseppucci che poi affida a costoro la gestione, per conto della banda stessa, del commercio della cocaina nella zona di viale Marconi.
- Angelo Cassani (detto Ciletto) Amico dei fratelli Zumpano che lo presentano nella banda nella quale fa il suo ingresso nel 1981]in occasione dell'omicidio di Roberto Faina, commesso dallo stesso Ciletto e da Giorgio Paradisi. Anch'egli si occuperà del commercio di cocaina nelle zone di Testaccio e Trastevere.
- Enrico Nicoletti Ex carabiniere e poi usuraio e truffatore, conosce De Pedis nel carcere di Regina Coeli e diventa prima l'anima finanziaria del gruppo di Testaccio-Trastevere e attorno al quale giravano anche esponenti dell'eversione nera del tempo, poi addirittura il cassiere dell'intera banda perché considerato dalla stessa personaggio presentabile e con le conoscenze giuste (come, per esempio, l'allora giudice e senatore Vitalone) e a cui destina i proventi dell’attività illecita, poi reinvestiti in attività di riciclaggio ad alto livello acquisendo attività commerciali e beni immobili e moltiplicando così i capitali illeciti dell'organizzazione.
- Amleto Fabiani (detto er Voto) è parte del gruppo di malavitosi dediti alle rapine e alla grossa ricettazione che gravitano attorno alla figura di Abbruciati il quale poi non mancherà, sin dall'inizio, di coinvolgerlo nel progetto criminale della banda.
Gruppo di Ostia-Acilia
- Nicolino Selis (detto Il Sardo) Nato in Sardegna, a Nuoro, ben presto si trasferisce nella capitale dove diventa, in poco tempo, uno dei padroni incontrastati del litorale, nella zona di Ostia. Alla banda porta in dote i suoi stretti rapporti con la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo di cui diviene ne divenne il referente su Roma per il traffico di droga, il riciclaggio e la vendita di armi.
- Antonio Leccese Personaggio di rilievo ma certamente non di spicco nella malavita romana e cognato di Selis, di cui sposa la sorella Anna Paola, e per conto del quale controlla il traffico di droga nei quartieri di Casal Bruciato e Tiburtino, oltre che adoperarsi come suo guardaspalle
- Giuseppe Magliolo (detto Il Killer) Arrestato già diverse volte per aver commesso vari omicidi su commissione e uomo di fiducia di Selis che conosce durante un periodo di detenzione, nel 1975 e con cui sarà protagonista anche di un'evasione dal carcere di Regina Coeli.
- Giuseppe Carnovale e Vittorio Carnovale (detti Il Tronco e Il Coniglio) Cognati di Toscano (che sposò la loro sorella Antonietta) e operativi nel gruppo di Nicolino Selis che agiva ad Acilia.
- Edoardo Toscano (detto Operaietto) Arrestato per rapina e tentato omicidio nel 1975, lo stesso anno partecipa anche lui all'evasione dal carcere romano di Regina Coeli assieme a Selis e, tornato libero, si unisce alla sua batteria, per poi aderire al progetto criminale della banda.
- Giovanni Girlando (detto Il Roscio) Luogotenente di Toscano si unisce alla batteria di Selis con cui, nel 1976, realizza una serie di furti e rapine a mano armata in banche e uffici postali. Arrestato, dopo la rapina al treno Chiusi-Siena, fu condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere. Una volta libero si diede al traffico di droga, attività che proseguì anche all'interno della banda.
- Fulvio Lucioli (detto Il Sorcio) Nel 1976 entra a far parte della batteria capeggiata da Selis che, per i seguenti due anni, fino al suo arresto, metterà a segno un incredibile numero di rapine a mano armata. Durante la carcerazione accetta la proposta di Toscano di entrare a far parte della neonata banda ricevendo, ancora tra le sbarre, una stecca di trecentomila lire alla settimana.
- Antonio Mancini (detto l'Accattone) Originario del quartiere San Basilio, inizia la sua carriera nel crimine già giovanissimo in una batteria specializzata nell’assalto ai treni. Nel 1976, durante uno dei suoi tanti soggiorni nel carcere di Regina Coeli, ha modo di stringere ulteriormente i rapporti con Selis e di sposare appieno il suo progetto di tentare su Roma la stessa operazione di controllo del territorio che, il camorrista Raffaele Cutolo, stava realizzando sulla piazza napoletana. Cosa che poi effettivamente avvenne, una volta liberi, con quel patto che, assieme agli altri due gruppi criminali, diede forma alla banda della Magliana.
- Libero Mancone Primo arresto nel 1970 per furto aggravato, anche lui coinvolto nella banda da Selis.
- Gianfranco Urbani (detto Er Pantera) Uomo "più di parole che di pistole" e basista nella batteria di Selis era anche ben inserito nel traffico degli stupefacenti, grazie anche ai suoi contatti con grossi spacciatori thailandesi. Ancora carcerato accetta la proposta di entrare a far parte della neonata banda ricevendo fin dall'inizio una stecca di trecentomila lire alla settimana. Punto di contatto e tramite con esponenti di primo piano della 'Ndrangheta calabrese come Paolo De Stefano, Giuseppe Piromalli e Pasquale Condello.
- Angelo De Angelis (detto Er Catena) Pregiudicato, con diversi precedenti penali a suo carico, si vantava di far parte di un gruppo massonico per il quale agiva e da cui riceveva protezione a livello poliziesco e processuale. Trafficante di stupefacenti, attività che proseguì anche nella banda, spesso venne accusato dai componenti della stessa di tagliare la cocaina che era incaricato di vendere.
- Gianni Travaglini Gestore di una stentata attività di commercio d'auto che, una volta diventate più floride le situazioni economiche del gruppo di Acilia, ebbe immediatamente un notevole incremento grazie ai prestiti e agli acquisti di auto dei componenti della banda di cui divenne il fornitore ufficiale fornendo loro assistenza logistica (auto ai familiari dei detenuti per recarsi ai colloqui; auto blindate all'occorrenza) e garantendo cosi' possibilità di movimento riducendo i pericoli di controllo e di individuazione, in quanto non effettuava i passaggi di proprietà. Inoltre, disponendo di autorimessa occultava talvolta mezzi predisposti o utilizzati per le operazioni.
- Roberto Frabbetti (detto il Ciccione) Titolare di una tintoria ad Acilia che gli consentiva pertanto di giustificare all'occorrenza la disponibilità di ragguardevoli somme di denaro liquido. Inizialmente operava come autista per conto di Mancone e, pur non avendo mai partecipato ad azioni violente della banda, svolgeva attività di supporto, specie per quel che concerneva gli aiuti ai detenuti e alle loro famiglie, di favoreggiamento ai latitanti e anche per quanto riguarda la custodia e gli spostamenti della sostanza stupefacente.
- Emidio Salomone Cresce all'ombra di Vittorio Carnevale e quando quest'ultimo verrà ucciso diventerà il padrone del traffico di stupefacenti nel quadrante di Ostia, come anche del gioco clandestino e dell'usura.
- Bruno Tosoni (detto er Capoccione) Gestiva l'usura per il gruppo.
Altri
- Roberto Fittirillo Killer della banda per cui gestisce anche il controllo della commercializzazione degli stupefacenti della zona del Tufello.
- Claudio Vannicola (detto la Scimmia) Prima di entrare nella banda condivide con Abbruciati l'esperienza nelle prime batterie e assieme a lui verrà imputato di rapine e sequestri di persona.
- Alessandro D'Ortenzi (detto Zanzarone) Malavitoso con precedenti per associazione per delinquere, rapina, furti, ricettazione, detenzione di armi, ricoprì una posizione marginale all'interno della banda ma, dati i suoi trascorsi giudiziari e in certa familiarità con specialisti in psichiatria, veniva utilizzato per ottenere perizie psichiatriche compiacenti, oltre che come punto di contatto tra la banda e il professor Aldo Semerari.
- Alvaro Pompili Introdotto nella banda da Colafigli vista l'esigenza dell'organizzazione di avvalersi di personaggi "puliti", in grado di far riciclare i loro capitali. Impiegato del Ministero della Sanità, fece poi da tramite con Biagio Alesse, custode e centralinista presso il Ministero stesso, convincendolo a custodire un deposito di armi all'interno dello stabile.
Il sequestro del Duca Grazioli
Il debutto come banda vera e propria fu il sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere Fu Franco Giuseppucci a proporre il sequestro del duca il quale aveva avuto a sua volta l'indicazione dell'ostaggio da tal Enrico (Mariotti) gestore di una sala corse a Ostia, il quale frequentava il figlio del duca Massimiliano con cui condivideva la passione per le armi. Si trattava di un salto di qualità rispetto alle rapine che facevano Ovviamente il sequestro di persona richiedeva una maggiore organizzazione sia logistica che di impegno personale. Pertanto, mentre iniziavano i pedinamenti del sequestrando presero anche contatto, con Giorgio Paradisi, il quale conosceva il Giuseppucci per la passione per i cavalli e frequentazione di ippodromi, sale corse e bische, con il predetto "Bobo",e dall'altro lato, con una banda di Montespaccato, della quale faceva parte Antonio Montegrande, siciliano
La sera del 7 novembre 1977, lasciata da poco la sua tenuta di Settebagni, a nord di Roma, il duca, a bordo della sua BMW, venne bloccato da due auto (una Fiat 131 guidata da Maurizio Abbatino ed un'Alfetta con al volante Renzo Danesi) a bordo delle quali si trovavano alcuni uomini incappucciati che lo fecero scendere per poi caricarlo a bordo di una di queste e venne successivamente trasportato in diversi nascondigli provvisori, a Primavalle e sull’Aurelia.
A causa dell'inesperienza nel campo però la banda non riuscì a gestire al meglio il sequestro e dovette chiedere aiuto ad un altro gruppo criminale, una piccola banda di Montespaccato. Nel periodo successivo al sequestro ebbero luogo le trattative con la famiglia, che chiedeva prove sulle condizioni di salute del rapito, tentando di abbassare il prezzo del riscatto, ed i rapitori, che continuarono la trattativa, fornendo nel contempo foto e messaggi volti a provare che il duca era vivo. La banda era a conoscenza delle disponibilità monetarie della famiglia, la quale, oltre a qualche proprietà, come a esempio l’ampia tenuta di Settebagni, solo qualche tempo prima aveva venduto il quotidiano romano Il Messaggero
Durante la prigionia del duca, avvenne un contrattempo: uno dei componenti di Montespaccato si fece vedere in faccia e cosi venne ucciso ed il corpo non venne mai ritrovato, mentre in precedenza la banda, allo scopo di ottenere il riscatto di un miliardo e mezzo, contro i dieci della richiesta iniziale, allestì una macabra messinscena, fotografando il cadavere del duca con gli occhi aperti ed un quotidiano tra le mani, per far credere che fosse ancora vivo Il sequestro, nonostante le cose si fossero svolte diversamente da come la banda le aveva presviste, si rivelò un vero e proprio successo, confermando l'idea che unire le forze di più batterie non era solo possibile ma che avrebbe portato enormi vantaggi. Il frutto del riscatto venne inizialmente decurtato del cinquanta per cento come quota spettante alla banda di Montespaccato che aveva tenuto in custodia l’ostaggio, mentre l'altra metà venne invece "steccata" in parti eguali tra i vari gruppi interni alla banda e poi riciclata in Svizzera tramite Salvatore Mirabella, un milanese della banda di Francis Turatello ed inserito nel giro delle bische clandestine.
L'omicidio di Franco Nicolini
La ragione per la quale un gruppo così modesto riuscì a raggiungere per la prima volta il totale controllo delle attività criminali in una metropoli come Roma è da ricercarsi nei metodi utilizzati e, primo tra tutti, quello degli omicidi. Tale pratica, venne utilizzata dalla banda al fine di estendere il suo controllo su tutta la città, attraverso la sistematica eliminazione fisica degli avversari, intendendo in questo modo ottenere il risultato ulteriore di intimorire chi avesse voluto interferire con i suoi progetti di crescita. Questa situazione di precario equilibrio generava nel sodalizio il timore che qualcuno dei vari boss potesse prendere il sopravvento rispetto agli altri, per cui esisteva la regola che ogni azione rilevante dovesse essere approvata dai vari gruppi.
Il debutto di fuoco fu l'uccisione di Franco Nicolini, detto Franchino er Criminale, all'epoca padrone assoluto di tutte le scommesse clandestine dell'ippodromo Tor di Valle e le cui attività illegali suscitarono ben presto l'interesse della nascente banda, anche se il motivo primario del suo omicidio fu da ricercarsi in un torto fatto subire a Nicolino Selis nel corso di un periodo di comune detenzione; questo avvenne nel 1974 quando, durante una rivolta dei detenuti, Nicolini si schierò dalla parte delle guardie carcerarie per ristabilire l’ordine e, agli insulti di Selis, rispose schiaffeggiandolo in pieno volto di fronte agli altri detenuti
La sera del 25 luglio del 1978, nel momento in cui la gente cominciava a defluire dall'ippodromo dopo l'ultima corsa, nel parcheggio antistante due auto attesero l'arrivo di Nicolini: Renzo Danesi e Maurizio Abbatino erano alla guida rispettivamente, di una Fiat 132 e di una Fiat 131, a bordo delle quali si trovavano Enzo Mastropietro, Giovanni Piconi, Edoardo Toscano, Marcello Colafigli e Nicolino Selis, mentre Franco Giuseppucci rimase in attesa all'interno dell'ippodromo, allo scopo di farsi notare dalla gente per costruirsi l'alibi; Nicolini, giunto nel parcheggio nei pressi della sua Mercedes grigia, venne avvicinato da Toscano e Piconi e freddato all’istante con nove colpi di pistola.
La decisione di uccidere Nicolini venne presa dalla banda anche in virtù del beneplacito, ottenuto dal capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, il quale, appena evaso dall'ospedale psichiatrico di Aversa, nella primavera del 1978 organizzò un incontro con Selis allo scopo di trovare, una strategia compatibile con gli obbiettivi di entrambi, nominando così Selis suo luogotenente nella piazza romana.
All'incontro, che avvenne in un albergo di Fiuggi dove, secondo la deposizione del pentito Abbatino, Cutolo disponeva di un intero piano per sè ed i propri guardaspalle, parteciparono anche Franco Giuseppucci, Marcello Colafigli e lo stesso Maurizio Abbatino, e questo segnò un momento decisivo nella storia della banda che, tra le sue varie attività, ebbe modo di attivare un canale preferenziale con i camorristi per la fornitura delle sostanze stupefacenti da distribuire poi nella capitale La sua eliminazione, si rivelò comunque una tappa per la crescita della sbanda la quale ebbe via libera per poter gestire un'ottima fonte di guadagno Da quel momento, infatti, i rapporti di forza all'interno della malavita romana subirono un cambiamento definitivo che vide la banda in una posizione predominante e che perdurò negli anni successivi. L'ascesa degli uomini della Magliana, infatti, avvenne in modo molto rapido ed in poco tempo, dalle semplici rapine, le attività criminali della stessa si spostarono verso reati più redditizi legati ai sequestri di persona, al controllo del gioco d'azzardo e delle scommesse ippiche, ai colpi ai caveau e soprattutto al traffico di sostanze stupefacenti. I vari componenti della banda, comunque, anche quando il loro potere crebbe fino ad assumere il controllo completo delle attività illecite cittadine, continuarono, nonostante le ricchezze acquisite e il conseguente salto di qualità nella scala sociale a partecipare personalmente alle azioni, rimanendo sostanzialmente degli operai del crimine.
Il traffico di stupefacenti
L'organizzazione dello spaccio della droga e la sua diffusione nelle zone della città avveniva attraverso una rete di spacciatori di medio livello, denominati cavalli, collegati a loro volta a piccoli spacciatori denominati formiche. Tale struttura venne spiegata da Antonio Mancini durante un interrogatorio
Tutti gli spacciatori rispondevano, però, ad un referente della banda che si incaricava, dopo avere ricevuto la droga dai canali della criminalità organizzata o dall'estero, di distribuirla al livello inferiore e di ritirare i proventi della vendita della stessa, imponendo una sorta di monopolio della droga, attraverso il quale si controllava l'approvigionamento e lo smercio su tutta Roma.Nell'interrogatorio reso il 23 maggio 1994, lo stesso Mancini, confermò Allo scopo di avere un controllo capillare del territorio si rese necessario una divisione dello stesso in varie zone presidiate dai vari gruppi della banda.
La zona di Testaccio-Viale Marconi, quartier generale della banda, era di competenza di Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci e veniva gestita tramite l'apporto dei fratelli Franco e Domenico Zumpano.
Le zone di Trastevere, Torpignattara e Centocelle erano controllate da Enrico De Pedis, Raffaele Pernasetti, Ettore Maragnoli, Giorgio Paradisi, Fabiola Moretti e Angelo Cassani.
Le zone della Magliana e di Monteverde erano controllate da uomini di Maurizio Abbatino, quali Enzo Mastropietro, Roberto Giusti, Massimo Sabbatini e Giovanni Piconi.
La zona di Ostia era controllata da Nicolino Selis, che si avvaleva di uomini come Paolo Frau, Ottorino Addis, Antonio Leccese, Fulvio Lucioli e Gianni Girlando.
La zona di Acilia era controllata da Edoardo Toscano, Libero Mancone, i fratelli Carnovale e Roberto Frabetti.
Le zone della Garbatella e di Tor Marancia erano controllate da Claudio Sicilia, Gianfranco Sestili e Marcello Colafigli.
E poi, il Trullo era curato da Renzo Danesi, il Portuense da Emilio Castelletti, il Prenestino e Villa Gordiani dal Pantera Gianfranco Urabani e nelle zone del Tufello-Alberone la gestione era affidata a Roberto Fittirillo e ai tre fratelli Giordani (detti i Sandroni).
La divisione in zone del territorio rifletteva in pieno la struttura della banda che, nata dall'unione di diverse batterie, responsabili ognuna della propria, a differenza della Camorra o Cosa Nostra, non presentava un'organizzazione di un unico capo in grado di prendere decisioni vincolanti per le diverse zoneI proventi di questo traffico, così come quelli relativi al gioco d'azzardo, alla prostituzione, alle scommesse clandestine, al traffico di armi e di tutte le altre attività criminali in cui la banda era impegnata, oltre ad assicurare un adeguato livello di corruzione di periti, avvocati, personale sanitario ed anche di alcuni esponenti delle forze dell’ordine, erano divisi sempre in parti uguali: tutti i membri ricevevano la cosiddetta stecca para, ossia una sorta di dividendo indipendente dal lavoro svolto in quel periodo, che anche i membri detenuti (e i familiari degli stessi) continuavano a ricevere assieme ad un'adeguata assistenza legale per evitare delazioni; questo insieme di regole era vincolante per gli appartenenti alla banda e l’inosservanza delle stesse portava a vendette ed anche all'omicidio.
Il deposito di armi al Ministero della Sanità
L'aumento delle armi a disposizione della banda che venivano custodite da una serie di favoreggiatori incensurati, indusse l'organizzazione a valutare l'opportunità di raggrupparle in un unico deposito. Da un lato, vi era chi avrebbe preferito custodirle in un appartamento disabitato e, dall'altro chi invece premeva affinché venissero affidate ad un'unica persona in un ambiente insospettabile.Marcello Colafigli aveva un notevole ascendente su Alvaro Pompili, all'epoca impiegato del Ministero della Sanità, pertanto gli prospetto' la possibilità di costituire un deposito presso tale Ministero. Alvaro Pompili, a sua volta, era particolarmente legato a Biagio Alesse, custode e centralinista presso il Ministero della Sanità, il quale si fece convincere agevolmente a fare anche il custode delle armi, con un compenso fisso di circa un milione al mese e con la tacita garanzia che, per ogni necessità economica, la banda avrebbe fatto fronte ai suoi impegni. Fu cosi' che gran parte delle armi furono trasferite dai precedenti depositi presso la Sanità. Per quanto poi concerne, in particolare, la riconsegna, questa veniva effettuata quasi sempre da Claudio Sicilia e da Gianfranco Sestili: essi si limitavano a lasciare il borsone all'Alesse, il quale provvedeva autonomamente all'occultamento. Mentre per il ritiro e la preparazione delle armi, l'Alesse poteva consentirla soltanto ai due predetti Le armi custodite nel deposito della Sanità appartenevano a tutte le componenti della banda
Il 25 novembre del 1981, nel corso di una perquisizione, la polizia rinvenne in uno scantinato del Ministero della Sanità, al civico 34 di via Liszt all'Eur, l'arsenale composto da 19 tra pistole e revolver, una machine pistol M12, un mitra moschetto automatico Beretta (Mab), un mitragliatore Sten, altri fucicili mitragliatori, oltre a cartucce ed a bombe a mano. Analizzando le armi, gli inquirenti poterono risalire anche ai legami tra la banda e la destra eversiva dei Nuclei Armati Rivoluzionari che, proprio tramite Massimo Carminati, ebbero modo di utilizzare alcune di quelle armi, a cominciare dal depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna operato dai servizi deviati
La guerra con il Clan Proietti
Il primo componente della banda a cadere sul campo fu Franco Giuseppucci, ucciso a Piazza San Cosimato nel cuore del quartiere di Trastevere, il 13 settembre 1980, in un agguato da parte del clan rivale della famiglia Proietti, detti i Pesciaroli per via della loro attività commerciale all'interno del mercato ittico della capitale. Un gruppo criminale molto numeroso e che si avvaleva di consanguinei, fratelli, cugini e affini e molto vicino a quel Franco Nicolini, giustiziato dai componenti della Magliana per il controllo del gioco d'azzardo a Tor di Valle.
Raggiunto da una pallottola al fianco mentre saliva a bordo della sua Renault 5, Giuseppucci riuscì comunque a mettere in moto la vettura e ad arrivare fino in ospedale, crollando poi fra le braccia degli infermieri e spirando proprio mentre i medici si apprestavano ad intervenire. La morte di Giuseppucci fu il pretesto per scatenare una sanguinosa guerra contro il clan rivale che segnò però anche un forte momento di aggregazione della banda. Gli scontri violenti e gli agguati tra i due gruppi si manifestarono ben presto con una serie di omicidi e tentativi di omicidio e con gravissime perdite riportate dai Proietti.
Il primo atto della vendetta nei confronti dei Proietti, relativamente all'uccisione di Franco Giuseppucci, fu il tentato omicidio di Enrico Proietti detto "Er Cane" che, il 27 febbraio 1980, venne ferito ma riuscì a sfuggire all'agguato. Meno fortunati furono invece Orazio, figlio di Enrico, che morì di overdose dopo essere stato comunque ferito anche lui in un agguato della banda, il 31 ottobre 1980 e poi Fernando, detto Il Pugile, giustiziato il 30 giugno del 1982.
L'episodio più significativo avvenne la sera del 16 marzo 1981 quando, Antonio Mancini e Marcello Colafigli intercettarono Maurizio Proietti detto il Pescetto e suo fratello Mario (Palle D'oro), quest'ultimo già sfuggito ad un agguato qualche tempo prima. I due, in compagnia delle rispettive famiglie, facevano infatti rientro alle loro abitazioni site in via di Donna Olimpia n°152, nei pressi del quartiere Monteverde. Nel furibondo scontro a fuoco che ne seguì, Maurizio fu colpito a morte, mentre i due criminali della Magliana rimasero lievemente feriti e, nel tentativo di evitare l’arresto e di aprirsi un varco verso la fuga, iniziarono a sparare sulla polizia che a sua volta rispose al fuoco. Facendosi poi scudo con un bambino, i due killer feriti tentarono disperatamente la fuga, ma vennero quindi arrestati all'interno di un appartamento dello stabile nel quale si erano barricati.
Ma la vendetta non si fermò infatti, trovarono la morte anche Orazio Benedetti, collaboratore legato ai pesciaroli e Daniele Raffaello Caruso: il primo freddato in una sala giochi di via Rubicone, al quartiere Salario, il 23 gennaio del 1981, reo di aver brindato alla notizia della morte di Giuseppucci; il secondo, fatto trovare cadavere in una Giulietta il 22 gennaio 1983 perché ritenuto responsabile della morte di Mariano Proietti (figlio di Enrico), ucciso il 14 dicembre 1982 senza il consenso della banda
- Maurizio Proietti (detto Il Pescetto) ucciso il 16 marzo 1981.
- Mario Proietti (detto Palle D'oro) fratello di Maurizio e Fernando, rimase ferito in due diversi agguati, il 12 dicembre 1980 e il 16 marzo 1981.
- Fernando Proietti (detto Il Pugile) fratello di Maurizio e Mario, ucciso il 30 giugno 1982.
- Enrico Proietti (detto Er Cane) cugino di Maurizio, Mario e Fernando, ferito in un agguato il 27 ottobre 1980.
- Orazio Proietti figlio di Enrico, ferito il 31 ottobre 1980 e poi trovato morto per un'overdose di eroina.
- Mariano Proietti figlio di Enrico, ucciso il 14 dicembre 1982 da elementi estranei alla banda della Magliana
La destra eversiva con Aldo Semerari
Uno dei personaggi attivi nell'area dell'eversione nera che entrò in contatto con la banda fu il professor Aldo Semerari. Celebre psichiatra forense, massone e iscritto alla Loggia P2, agente dei servizi d’informazione militare e tra i più autorevoli criminologi italiani, Semerari lavora come consulente per redigere alcune delle perizie psichiatriche dei casi giudiziari più eclatanti degli anni settanta come, ad esempio, quella su Pino Pelosi nel caso dell'omicidio di Pier Paolo Pasolini.
Leader del gruppo neofascista, Costruiamo l'azione, durante l'estate del 1978 organizzò diversi seminari e incontri politici nella villa del professor Fabio De Felice sita a Poggio Catino in provincia di Rieti, a cui parteciparono anche alcuni componenti della banda introdotti da Alessandro D'Ortenzi, detto Zanzarone, un pregiudicato in rapporti di confidenza con il professore e che per i suoi trascorsi giudiziari e la sua familiarità con diversi specialisti in psichiatria, veniva utilizzato per ottenere perizie compiacenti. Semerari seguì una precisa strategia eversiva basata anche sulla collaborazione fativa tra estremismo di destra e malavita comune e, secondo il pentito Abbatino: «A lui piaceva proprio avere contatti con le bande. E c’è stato un periodo in cui loro utilizzavano noi, e noi loro per le perizie e per l’approvvigionamento e l’acquisto di armi. Semerari pensava a un appoggio di tipo logistico, come un colpo di Stato: loro facevano dei raduni nelle campagne di Rieti proprio simulando colpi di Stato.
Nonostante il rifiuto ad operare come braccio armato del gruppo politico di Semerari, da quegli incontri uscì un accordo di massima tra il professore ed la banda che prevedeva finanziamenti per il gruppo neofascista in cambio di perizie medico psichiatriche compiacenti e miranti a fare ottenere ai componenti della Magliana, in caso di arresto, condizioni favorevoli di detenzione o scarcerazioni a causa di condizioni di salute inidonee al regime carcerario. Il sodalizio durò fino ai primi mesi del 1982 quando, probabilmente vittima di un regolamento di conti interno alla camorra, il 25 marzo di quello stesso anno, il corpo del professor Semerari fu ritrovato decapitato all'interno di un'automobile, nei pressi di Ottaviano, in provincia di Napoli. La causa della sua morte fu da ricercarsi in un episodio avvenuto poco tempo prima: il professore infatti, nella sua qualità di psichiatra forense, si era adoperato per la scarcerazione di un boss della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, per poi accettare l'incarico come consulente anche per la fazione opposta, la famiglia di Roberto Ammaturo. Una errata mossa strategica che, gli costò la vita
Con i Nuclei Armati Rivoluzionari
il rapporto della Banda con il'universo giovanile dell'estremismo di destra e con i componenti del nucleo storico dei Nuclei Armati Rivoluzionari: Alessandro Alibrandi, Cristiano e Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Walter Sordi e, soprattutto, Massimo Carminati.
Frequentando i locali del bar Fermi o quelli del bar di via Avicenna (entrambi nella zona di Ponte Marconi), dove spesso si ritrovavano anche molti dei componenti della stessa Banda, nell'estate del 1978 Massimo Carminati entrò in contatto con i boss Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci che, ben presto, lo presero sotto la loro ala protettiva. A loro Carminati iniziò ad affidare i proventi delle rapine di autofinanziamento effettuate con i NAR, in modo da poterli riciclare in altre attività illecite quali l'usura o lo spaccio di droga. In regime di reciproco scambio di favori, la Banda, di tanto in tanto commissiona ai giovani fascisti anche di eliminare alcune persone poco gradite, come nel caso del tabaccaio romano Teodoro Pugliese, ucciso da Carminati (assieme ad Alibrandi e a Claudio Bracci) con tre colpi di pistola calibro 7,65, perché d'intralcio nel traffico di stupefacenti gestito da Giuseppucci. Durante questo periodo, Carminati ottenne addirittura il controllo congiunto (per conto dei NAR ed unico autorizzato del gruppo eversivo) del deposito di armi nascosto negli scantinati del Ministero della Sanità, all'EUR.
Altre indicazioni vennero fornite dalle dichiarazioni rese dal neofascista (e pentito) Walter Sordi quando, al giudice di Roma in data 15 ottobre 1982, dichiarò che nell' 80, Alibrandi affidò alla banda stessa 20 milioni di lire, Bracci Claudio 10 milioni, Carminati 20 milioni, Stefano Bracci e Tiraboschi 5 milioni Alibrandi percepiva un milione al mese di rendita. I soldi affidati alla banda Giuseppucci-Abbruciati erano tutti in contanti.
Anche per diretta ammissione dei pentiti Claudio Sicilia e Maurizio Abbatino è accertato che, i militanti dei NAR, effettuarono per la banda lavori di manovalanza criminosa come la riscossione di crediti dell'usura, il trasporto di quantitativi di droga oltre che alcuni delitti su commissione. A volte, però, il meccanismo s'inceppò come nel caso della rapina alla Chase Manhattan Bank di Roma del 27 novembre 1979, da parte di Giusva Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Peppe Dimitri e Massimo Carminati. Successivamente parte del bottino, consistente in traveller cheque, verrà come sempre affidata nelle mani di Franco Giuseppucci che ne organizzò l'operazione di riciclaggio ma che gli costarono, nel gennaio del 1980, un arresto con l'accusa di ricettazione.
L'intreccio con politica e servizi deviati
Il coinvolgimento nell'omicidio Pecorelli
La sera del 20 marzo 1979 Mino Pecorelli giornalista, iscritto alla Loggia massonica P2 di Licio Gelli, venne assassinato con tre colpi di pistola calibro 7,65 (uno in faccia e tre alla schiena) da un sicario in via Orazio a Roma, poco lontano dalla redazione del giornale in circostanze ancora oggi non del tutto chiarite. Egli era direttore di OP-Osservatore Politico, dapprima agenzia di stampa e poi rivista settimanale specializzata in scandali politici, tra i quali lo scandalo petroli, il caso Moro, lo scandalo dell'Italcasse, il crack della Sir o gli affari di Sindona e Andreotti, che, attraverso delle importanti inchieste, si rivelò anche uno strumento di ricatto e condizionamento del mondo politico per lanciare messaggi cifrati e spesso ricattatori
Dei proiettili simili a quelli utilizzati nell'agguato calibro 7,65 e di marca Gevelot, difficilmente reperibili sul mercato, vennero poi rinvenuti all'interno dell'arsenale della banda nei sotterranei del Ministero della Sanità. Al processo emerse un chiaro coinvolgimento della banda e di Massimo Carminati il quale venne imputato di aver commesso materialmente l'omicidio nell’interesse di Giulio Andreotti, oggetto nella primavera del 1978 di un violento attacco dalle colonne di OP. Tramite dell'accordo sarebbe stato il magistrato e intimo amico del senatore Claudio Vitalone, personaggio molto vicino a esponenti della banda Il 3 marzo 1997, durante l'interrogatorio di fronte alla Corte di assise di Perugia, il pentito Maurizio Abbatino dichiarò ai giudici di aver saputo da Franco Giuseppucci che l’omicidio era stato commissionato a loro dai siciliani, ai quali sarebbe stato richiesto da un importante personaggio politico, individuato poi in Giulio Andreotti, oggetto di un duro attacco attraverso gli articoli del settimanale OP La tesi accusatoria nel processo prospettava che il delitto sarebbe stato deciso dal senatore Andreotti il quale, attraverso l’on. Vitalone, avrebbe chiesto ai cugini Salvo l’eliminazione di Pecorelli. I Salvo avrebbero attivato Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, i quali, attraverso la mediazione di Giuseppe Calo, avrebbero incaricato Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci di organizzare il delitto che sarebbe stato eseguito da Massimo Carminati e da Michelangelo La Barbera
Anche Antonio Mancini confermò nell'interrogatorio al pm di Perugia dell'11 marzo 1994, aggiungendo che fu «Massimo Carminati a sparare assieme ad Angiolino il biondo» (Michelangelo La Barbera siciliano) Il delitto era servito alla Banda per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari, finanziari romani Dopo tre gradi di giudizio, nell’ottobre del 2003, la Corte di cassazione di Perugia emanò una sentenza di assoluzione "per non avere commesso il fatto" per Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti e Pippo Calò accusati di essere i mandanti e per Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera da quella di essere gli esecutori materiali dell'omicidio, bollando le testimonianze dei membri della banda come non attendibili.La morte di Pecorelli resta ancora oggi un caso irrisolto come anche la provenienza dell’arma utilizzata nel delitto: tutte le armi dell’arsenale della banda, nel mentre, risultarono misteriosamente manomesse prima che fosse fatta qualche perizia per verificarne il concreto utilizzo.
Il legame con il sequestro Moro
Il 16 marzo del 1978, quando il Presidente della DC Aldo Moro venne rapito da un commando di brigatisti, gran parte della città di Roma era controllata dagli uomini della banda della Magliana e la stessa ubicazione della prigione del popolo (e covo dei terroristi) di via Montalcini, dove probabilmente venne rinchiuso lo statista nei 55 giorni della sua prigionia, era posto tra via Portuense e via della Magliana, ed in seguito si seppe che tale abitazione era circondata dalle abitazioni di molti affiliati alla stessa Lo stesso pentito Maurizio Abbatino rivelò poi come la banda fosse stata addirittura contattata per scoprire il luogo in cui il Presidente era tenuto prigioniero Cutolo ha mandato un personaggio politico a parlare per vedere se sapevamo dov’era il covo di Moro In un'intervista rilasciata al giornalista Giuseppe Rinaldi, per la trasmissione Chi l'ha visto?, Abbatino parlò nuovamente del sequestro Moro rivelando altri particolari relativi all'incontro con l'uomo politico mandato da Cutolo
Secondo le deposizioni del pentito Tommaso Buscetta, agli atti dell'inchiesta, a un certo punto nella Cupola si vennero a formare due distinti e contrapposti schieramenti e l'iniziativa della banda venne quindi bloccata dalla fazione dei corleonesi contraria alla liberazione che, attraverso il suo referente romano Pippo Calò, intervenne dicendo che ai politici della Democrazia Cristiana, in realtà, interessava Moro morto.
Altro punto di contatto tra la banda e il sequestro del politico democristiano era Toni Chichiarelli, falsario vicino agli uomini della Magliana e autore del finto comunicato n. 7 che, il 18 aprile 1978, annunciava l'uccisione di Moro e la sua sepoltura nel lago della Duchessa. Quel depistaggio, fu commissionato dai servizi segreti per cercare di smuovere le acque in quella fase di stallo del sequestro. Venne ucciso poi da un killer rimasto ignoto con nove proiettili il 28 settembre del 1984, emerse che, nel sopralluogo della sua abitazione, compiuto qualche giorno dopo la morte, vennero rinvenute, da parte dei Carabinieri, delle foto Polaroid di Moro scattate durante la sua prigionia
I depistaggi nella Strage di Bologna
La probabile convergenza d'interessi tra gli uomini della Magliana gli ambienti dell'eversione nera e alcuni settori deviati dei servizi e della politica, trova perfetta esemplificazione nel tentativo di depistaggio legato alla strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980, per la quale vennero riconosciuti esecutori materiali alcuni militanti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, di Giusva Fioravanti.Nel corso delle indagini, infatti, un mitra Mab con numero di matricola abraso e calcio rifatto artigianalmente, proveniente dal deposito/arsenale della banda all'interno del Ministero della Sanità, venne ritrovato sul treno Taranto-Milano il 13 gennaio 1981, in una valigetta contenente anche due caricatori, un fucile da caccia, due biglietti aerei a nome di due estremisti di destra, un francese e un tedesco, e soprattutto del materiale esplosivo T4, dello stesso tipo utilizzato per la strage di Bologna.
Nella sentenza della Corte suprema di cassazione del 23 novembre 1995, risultava infatti che Il mitra rinvenuto nella valigia che era stata collocata il 13.1.1981 sul treno Taranto-Milano apparteneva alla "banda della Magliana"Maurizio Abbatino, che di quell'associazione aveva fatto parte, aveva rivelato che negli scantinati del Ministero della Sanità l'organizzazione diponeva di un cospicuo deposito di armi e che alcune di esse erano state temporaneamente cedute a Paolo Aleandri, ma non erano state più restituite. Per costringere Aleandri a rispettate l'impegno assunto era stato sequestrato, ma poi era stato liberato, con la mediazione di Massimo Carminati quando all'associazione, in sostituzione delle armi date in prestito ad Aleandri, erano state date due bombe a mano e due mitra ed uno di questi mitra era stato prelevato da Carminati e mai più restituito. Abbatino, dopo aver descritto le peculiari caratteristiche del mitra finito nelle mani di Carminati, caratteristiche conseguenti ad un'artigianale modifica del calcio, riconosceva quell'arma nel M.A.B. che era stato trovato a Bologna Infine lo stesso aveva precisato che Carminati faceva parte di un gruppo di giovani che gravitava nell'area della destra eversiva, gruppo del quale facevano parte i fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti, Francesca Mambro, Giorgio Vale e Gilberto Cavallini.
Al ritrovamento della valigetta seguì la produzione di un dossier, denominato "Terrore sui treni", in cui venivano riportati gli intenti stragisti dei due terroristi internazionali (intestatari dei biglietti aerei) in relazione con altri esponenti dell'eversione neofascista italiana legati allo spontaneismo armato dei Nuclei Armati Rivoluzionari. I due episodi, vennero attribuiti ad alcuni vertici dei servizi segreti del SISMI come parte di una precisa strategia di depistaggio organizzata per tentare di indirizzare le indagini in una strada ben precisa e in cui, Massimo Carminati, uomo di cerniera tra la Banda ed esponenti dei servizi segreti deviati e dell'eversione nera, ebbe dunque un ruolo attivo, fornendo il MAB prelevato dall'arsenale della Banda e poi rinvenuto sul treno Taranto-Milano.Secondo la Corte di Assise di Roma, il depistaggio è “l’ennesimo episodio di una pervicace opera di inquinamento delle prove destinate ad impedire che responsabili della strage di Bologna fossero individuati”. Il 9 giugno del 2000, nel processo di primo grado, Carminati venne condannato (a 9 anni di reclusione) assieme al generale e al colonnello del Sismi Pietro Musumeci e Federigo Mannucci Benincasa, al colonnello dei carabinieri Giuseppe Belmonte e al venerabile Licio Gelli. Dell'episodio vennero infine ritenuti responsabili, con sentenza definitiva, i soli Musumeci e Belmonte, mentre Carminati verrà poi assolto in appello.
L'inizio della fine
Con la scomparsa del Negro, boss fondatore e collante tra le varie anime dell'organizzazione, la banda non riuscì più a trovare la compattezza che precedentemente le era propria ed i due gruppi prevalenti, i Testaccini di Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis e quelli della Magliana guidati da Maurizio Abbatino, iniziarono una guerra fredda, gelosie e rivendicazioni che col passare del tempo si trasformerà in una vera e propria faida interna, tanti furono i morti ammazzati da entrambo le parti.
Tra le varie cause di questa lotta fu la presa di coscienza, della predominanza sul piano affaristico dei Testaccini che, venivano accusati di essere uno strumento nelle mani di loschi poteri e di aver trasformato di fatto la stessa Magliana in una sorta di agenzia del crimine, a completa disposizione di chiunque offrisse denaro o protezione. Una vera e propria holding-criminale, che nei piani dei Testaccini, sempre più compromessi con mafiosi quali Pippo Calò, e massoni, come Licio Gelli e Francesco Pazienza, avrebbe permesso a De Pedis e soci di fare quel salto di qualità ed entrare così nel racket dell'alta finanza, più in funzione dei tempi e sul modello imprenditoriale di mafia e camorra, abbandonando così quelle che fino ad allora erano le prerogative del gruppo originale della banda e relegando Crispino, e soci, alla semplice gestione delle solite attività illecite quali prostituzione, stupefacenti, usura, rapine, rapimenti e corse clandestine.Testaccio aveva una mentalità più imprenditoriale mentre Abbatino commerciava ancora con gli stupefacenti
L'omicidio di Nicolino Selis
Altro problema interno alla banda, era rappresentato dall'irrequietezza di Nicolino Selis, il quale con l’appoggio dei camorristi di Cutolo, dal manicomio giudiziario dove si trovava detenuto iniziò sia a mandare messaggi minacciosi che a pretendere di imporre una sua personale spartizione delle ingenti somme di denaro, provento delle varie azioni delittuose. In particolare Selis iniziò anche a pretendere la "stecca" su attività delittuose svolte a titolo individuale e si dimostrò particolarmente indisposto nei confronti di De Pedis il quale a differenza degli altri aveva iniziato ad investire i suoi guadagni anche in attività legali, tanto da non voler più dividere la "stecca" con gli altri complici La goccia che fece traboccare il vaso, però avvenne in merito alla spartizione di una nuova fornitura di eroina; ci fu un errore di valutazione in ordine a quanto accadeva fuori dal carcere da parte di Nicolino Selis. Questi era entrato in contatto con dei siciliani, i quali gli avevano assicurato la fornitura di tre chilogrammi di eroina. Secondo gli accordi, tale fornitura avrebbe dovuto essere ripartita al 50% tra i 2 gruppi ma Nicolino ritenne di operare una ripartizione di due chilogrammi per i suoi e pertanto, impartì al Toscano istruzioni in tal senso. Si trattò di un passo falso Nicolino Selis muore per tradimento
Quando, il 3 febbraio del 1981, Selis uscì dal manicomio giudiziario per un breve permesso, venne organizzato un appuntamento davanti alla Fiera di Roma (all'EUR) con il pretesto di una riappacificazione e per tentare di trovare un accordo d'insieme ma quello che il Sardo non sapeva è che la banda aveva già deciso la sua morte. Selis, accompagnato dal suo cognato e guardaspalle Antonio Leccese, giunse all'EUR a bordo della sua A112 e trovò ad attenderlo Marcello Colafigli, Maurizio Abbatino, Edoardo Toscano, Raffaele Pernasetti, Enrico De Pedis e Danilo Abbruciati. L'intenzione del gruppo era di condurli alla villa di Libero Mancone ad Acilia, ma Leccese, che era in libertà vigilata e ad una ora fissa doveva recarsi presso il commissariato di Polizia a firmare, non venne trattenuto per non dare nell'occhio
Arrivati sul posto il Sardo venne agguantato con la scusa dell'abbraccio di riappacificazione dando le spalle a Crispino che ebbe il tempo di estrarre la pistola nascosta dentro una scatola di cioccolatini e sparare contro Selis due proiettili, seguiti da altri due di Toscano. Il suo corpo venne poi sepolto in una buca vicino all’argine del Tevere e ricoperto con della calce per affrettare la decomposizione e a tutt'oggi non è stato ancora ritrovato. L'ultimo atto era quello di uccidere Leccese, unico testimone ad aver visto l'ultima volta il Sardo partire con Abbatino e gli altri, che venne ucciso da Abbruciati, De Pedis e Mancini.
L'omicidio Balducci
Le tensioni tra i due gruppi si fecero sempre più forti, soprattutto a causa dell'intraprendenza dei Testaccini che operavanoi in un regime di indipendenza ed attraverso decisioni prese all'insaputa degli altri, quale l'omicidio, avvenuto la sera del 16 ottobre 1981 ad opera di Abbruciati e De Pedis, di Domenico Memmo Balducci, colpito a morte mentre stava rincasando in motorino, davanti al grande cancello della sua lussuosa villa situata in via di villa Pepoli, all'Aventino, per conto del mafioso Pippo Calò.
Domenico Balducci,noto come Memmo il cravattaro, era un usuraio e proprietario di un piccolo negozietto di elettrodomestici in una stradina adiacente a Campo de' Fiori, ove era esposto in vetrina l'eloquente cartello "Qui si vendono soldi". Attraverso solidi legami con la mafia, i servizi segreti, faccendieri e politici, Memmo gestiva il racket dell'usura per conto dello stesso Calò, il boss palermitano che aveva conosciuto in carcere nel 1954. Il suo errore fu quello di trattenere per sè, nell'estate del 1981, una parte del denaro (150 milioni) destinato a Calò e proveniente dalla cosiddetta "Operazione Siracusa" che avrebbe dovuto garantire alla mafia enormi proventi da una gigantesca speculazione edilizia, firmando così la sua condanna a morte.
Ne seguì un litigio acceso tra Abbruciati e Abbatino, il quale rinfacciò al testaccino di perseguire propri scopi personali al di fuori dell'interesse comune della banda ai testaccini veniva rivolta l'accusa di essere dei traditori che mettevano in pericolo i compagni per proteggere gli affari dei Corleonesi.
La morte di Abbruciati
L'intreccio di comuni interessi criminali tra l'anima testaccina della banda, sia con ambienti corrotti dell'economica che della politica e con la mafia di Cosa Nostra, emersero con il tentato omicidio del vice presidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone.
Nel corso del 1981 Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, che in quel momento aveva difficoltà economiche, si era messo in affari, per tentare di coprire i conti in rosso del Banco e salvarsi dal processo in corso a suo carico, con il faccendiere Flavio Carboni ed il mafioso Pippo Calò, vennero osteggiati dall'allora vicepresidente dell'istituto di credito Roberto Rosone, il quale aveva espresso diverse perplessità su alcuni prestiti senza garanzia concessi dal Banco Ambrosiano ad alcune società legate proprio a Flavio Carboni.
Secondo la ricostruzione accusatoria, Carboni informò Calò dell'accaduto e questi, nell'aprile del 1982, tramite Ernesto Diotallevi, affiliato della banda, incaricò Danilo Abbruciati di eseguire un atto di intimidazione a danno di Roberto Rosone
Giunti in treno a Milano il 26 aprile, la mattina seguente Abbruciati ed il suo complice Bruno Nieddu attesero la vittima sotto casa, in via Ercole Oldofredi, nei pressi della Stazione Centrale ed, intorno alle ore otto, mentre Rosone si dirigeva verso la sua macchina, viene avvicinato da Abbruciati (con il viso coperto) che tentò di sparagli, ma la sua pistola si inceppò, favorendo così la fuga del banchiere Egli però ebbe il tempo di ricaricare la pistola ed a sparare nuovamente, ferendo Rosone alle gambe, prima di fuggire in sella alla moto guidata dal suo complice. Nel frattempo una guardia giurata posizionata nei pressi di una filiale del Banco Ambrosiano, poco distante dal luogo dell'agguato, uscì e sparò a sua volta un colpo di 357 magnum colpendo a morte l’attentatore mentre cercava di scappare a bordo della moto
La notizia colse di sorpresa i suoi amici della Magliana (e la stessa Polizia) che, tenuti all'oscuro di tutto ritennero molto strano il fatto che Abbruciati si riducesse al ruolo di semplice killer su commissione ed accettasse un compito così rischioso Quello che infastidì maggiormente Abbatino e soci fu il fatto che Abbruciati avesse operato seguendo unicamente il suo tornaconto personale con conseguenze assai pericolose per la stessa banda. Arrivati a questo punto il livello di ostilità tra i due gruppi della banda era ormai diventato sempre più acceso, una divisione troppo grande e senza possibilità di ritorno.
I primi pentiti
Il primo componente della banda a scegliere la via del pentimento fu Fulvio Lucioli. Il Sorcio venne arrestato il 6 maggio del 1983 e tradotto nel carcere romano di Regina Coeli dove, dopo alcuni mesi di travaglio interiore, il 14 ottobre di quello stesso anno scrisse una lunga lettera al direttore dell'istituto di pena dicendosi disposto ad iniziare un programma di collaborazione con la giustizia chiedendo, la revoca dei suoi avvocati di fiducia in favore di un legale nominato d'ufficio. E così, il giorno successivo, davanti al magistrato per le indagini preliminari ed al suo avvocato, Lucioli iniziò il suo raccontò riempiendo i verbali e confessando di omicidi, rapine, traffici di stupefacenti e di armi, piuttosto che dei legami della banda con politici, cardinali, massoni, mafiosi, camorristi, ndranghetisti, servizi segreti deviati ed eversione nera. Grazie alla sua testimonianza, il 15 dicembre 1983, le forze dell’ordine arrestarono sessantaquattro persone tra boss decapitando gran parte dell'organizzazione.
Il 23 giugno 1986, a tre anni e tre mesi dal blitz, con la sentenza del processo di primo grado, trentasette furono condannati per traffico di sostanze stupefacenti. Confermate nel processo d'appello, le condanne verranno però drasticamente ridimensionate dalla Cassazione prima (il 14 giugno 1988) e dalla Corte d'assise d'appello poi che, il 14 marzo 1989, derubricò di fatto l'addebito di associazione per delinquere, screditando la figura del Sorcio definendolo un mitomane con debolezza mentale con coscienza non lucida
La cosiddetta banda della Magliana, quindi, secondo i magistrati non esisteva ed i vari reati erano stati perlopiù compiuti sulla base di estemporanei accordi e senza un vincolo associativo tra i componenti che andasse al di là dello specifico crimine. Questo era indice del fatto che la banda era ormai penetrata in pieno all’interno dei tribunali ed era quindi capace di corrompere giudici ed avvocati.
Dopo il pentimento di Lucioli, Claudio Sicilia continuò a gestire le attività del gruppo lasciate dai compagni detenuti fino a quando, anche lui, venne arrestato per spaccio e, nell’autunno del 1986, decise di iniziare a collaborare con i magistrati. Le sue rivelazioni non risparmiarono nessuno e le ordinanze di cattura che ne seguirono, il 17 marzo del 1987, riguardarono una settantina di imputati tra membri della banda, avvocati e professionisti. Il 14 giugno 1988, però, la Prima sezione della corte di cassazione annullò il processo e le condanne, considerando il testimone "persona soggettivamente poco attendibile per i suoi precedenti, la sua posizione giudiziaria e la sua personalità", e, nel nuovo processo di appello, il 14 marzo 1989, gli imputati vennero tutti assolti e addirittura negata l’esistenza della stessa organizzazione denominata banda della Magliana.
Tornato quindi in libertà, ma senza alcuna protezione da parte dello Stato, il Vesuviano trovò la morte la sera del 17 novembre 1991 quando, in via Andrea Mantegna nella zona popolare di Tor Marancia a Roma, due uomini a bordo di una moto di grossa cilindrata lo intercettarono e lo freddarono all'interno di un negozio di scarpe dove aveva cercato riparo.
La faida interna
Quando i componenti della banda tornarono in libertà e cadute le accuse dei pentiti Lucioli e Sicilia, dopo un periodo di riadattamento alcuni di loro tentarono di riorganizzare la banda ma l'organizzazione era ormai divisa da molti contrasti interni. Il mancato obbligo di fratellanza riguardanti l'assistenza ai detenuti e ai familiari degli stessi e la generale riottosità del gruppo dei testaccini, capeggiati da De Pedis, nel condividere con gli altri gli introiti delle loro attività criminali, incontrò la feroce opposizione di Edoardo Toscano e Marcello Colafigli, i quali, assieme al loro gruppo di fidati sodali (Vittorio Carnovale, i fratelli Fittirillo, Libero Mancone ed altri ancora), ritennero opportuno mettere un freno alle ambizioni di Renatino e soci.
Ma nessun accordo arriverà a pacificare la situazione: il 13 febbraio 1989, uscito di prigione in libertà vigilata, Toscano si mise alla ricerca di De Pedis deciso ad ucciderlo per poi fuggire all'estero, subito dopo l'omicidio. Messo al corrente delle intenzioni vendicative dell'Operaietto e giocando d'anticipo sul tempo rispetto all'ex amico e ora rivale, De Pedis escogitò a sua volta una trappola, sapendo che Toscano aveva affidato in custodia una somma di denaro ad un panettiere di Ostia, tale Bruno Tosoni.
Ignaro di ciò che stava per accadere, la mattina del 16 marzo 1989, Toscano si incontrò con Tosoni e rimase del tutto spiazzato quando, alle sue spalle, una moto di grossa cilindrata, con a bordo due uomini con i volti coperti da caschi integrali, fece fuoco su di lui con armi semiautomatiche, colpendolo tre volte e lasciandolo morire sul colpo
La morte di De Pedis
La vendetta dei sodali di Toscano, tuttavia, non si fece attendere ed, il 2 febbraio del 1990, anche De Pedis rimase sull'asfalto, colpito a morte davanti al civico 65 di Via Del Pellegrino, mentre, in pieno giorno e a bordo del suo motorino, attraversava il mercato romano di Campo de' Fiori
Il suo intuito per gli affari ed un fiuto imprenditoriale decisamente più oculato rispetto ai suoi compagni aveva portato De Pedis ad intensificare i suoi rapporti con politici e faccendieri, tanto da divenire «un punto di riferimento per i più spregiudicati operatori del mondo finanziario-criminale Invece di sperperare il denaro accumulato,iniziò ad investire gran parte dei proventi delle sue attività illegali in attività legali, costruendo un vero e proprio impero finanziario i cui introiti, non sarebbero più stati divisibili con gli altri sodali: latitanti, carcerati e familiari degli stessi. Enrico De Pedis iniziò a essere chiamato, nell’ambiente, il “Presidente” della malavita. Era l’ultimo scorcio degli anni Ottanta, ormai Renatino non si faceva più vedere al bar di via Chiabrera e neppure a Testaccio. Piuttosto, parlava di affari sulla scintillante via Della Vite, nella boutique di Enrico Coveri o anche al Jackie ’O. Renato era diventato snob, a come la vedevano Abbatino e gli altri De Pedis sistemò anche alcuni suoi familiari comprando loro un paio di esercizi commerciali a Trastevere (la pizzeria Popi Popi 56 e L’Antica Pesa), un supermercato a Ponte Marconi, vari appartamenti in centro e alcune quote di società immobiliari. Il resto della banda, interpretò questa sua emancipazione finanziaria come uno smacco da far pagare a caro prezzo. Un sentimento che ben presto assunse i toni della vendetta vera e propria nel momento in cui De Pedis, anticipando i suoi propositi omicidi, fece uccidere Edoardo Toscano dai suoi uomini (Angelo Cassani detto Ciletto e Libero Angelico, detto Rufetto), scatenando la rivalsa . Dopo vari abboccamenti finiti male, infatti, la mattina del 2 febbraio 1990, il gruppo dei maglianesi capeggiati da Marcello Colafigli, riuscì finalmente ad attirare De Pedis (che nell'ultimo periodo girava sempre assieme a dei guardaspalle) in un'imboscata con la complicità di Angelo Angelotti che lo convinse a recarsi presso la sua bottega di antiquario di via del Pellegrino, nei pressi di Campo dei Fiori. Terminato l'incontro, De Pedis, salì a bordo del suo motorino Honda Vision e si avviò verso casa ma venne subito affiancato da una potente moto con a bordo due killer assoldati per l'occasione (Dante Del Santo detto "il cinghiale" e Antonio D’Inzillo), che lo centrarono con un solo colpo alle spalle.
Tumulato all'interno del Cimitero del Verano, per volere della famiglia e soprattutto grazie al nulla osta dell'allora vicario di Roma, cardinal Poletti, la sua salma venne poi traslata in grande riservatezza, il successivo 24 aprile, nella Basilica di Sant'Apollinare, a Roma, dove De Pedis si era sposato nel 1988. Negli anni a seguire, la vicenda della sepoltura del boss della Magliana all'interno della chiesa romana, venne legata anche a quella della scomparsa di Emanuela Orlandi, cittadina vaticana e figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, sparita in circostanze misteriose all'età di 15 anni il 22 giugno 1983, a Roma. Nel luglio 2005, infatti, nel corso della trasmissione televisiva Chi l'ha visto? venne mandata in diretta una telefonata anonima che sembrava collegare i due accadimenti: «Riguardo al caso di Emanuela Orlandi per trovare la soluzione del caso andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant'Apollinare e del favore che Renatino (Enrico De Pedis) fece al cardinal Poletti e chiedete alla figlia del barista di via Montebello che anche la figlia stava con lei......con l'altra Emanuela»
Nel 2008, la magistratura romana, registra delle dichiarazioni della pentita ed ex amante di Renatino, Sabrina Minardi intervistata da Raffaella Notariale e poi interrogata dalla Procura stessa, secondo cui De Pedis avrebbe eseguito materialmente il sequestro per ordine dell'allora capo dell'Istituto per le Opere di Religione (IOR), monsignor Paul Marcinkus.
Il 14 maggio 2012, su disposizione dell'Autorità giudiziaria, si è proceduto all'apertura della bara di De Pedis e la salma, corrispondente a quella del boss, è stata ritrovata in completo scuro, blu, cravatta, camicia gialla e scarpe, proprio come descritto nei verbali dell’epoca.
Il pentimento di Abbatino
Con le prime spaccature all'interno della banda, che vide gli ex sodali trasformarsi in sempre più acerrimi nemici divisi da questioni di denaro e rivendicazioni di potere, il 20 dicembre del 1986, Maurizio Abbatino è protagonista di una rocambolesca evasione dalla clinica romana Villa Gina (nei pressi dell'EUR) dove, grazie a una perizia medica compiacente, si era fatto ricoverare per un tumore osseo avanzato, diagnosticatogli dai medici del carcere. Gli arresti ospedalieri senza piantonamento (durarono molto poco e, con l'aiuto del fratello Roberto, Abbatino riuscì a calarsi da una finestra del primo piano ed a scomparire nel nulla.
Un mese dopo l'evasione dalla clinica Abbatino decise che Roma era diventata troppo pericolosa per lui, stretto tra la morsa della polizia e dei suoi ex amici della banda scelse allora di fuggire in Sud America, dove gli uomini della squadra mobile romana e della Criminalpol riuscirono a scovarlo solo sei anni dopo, il 24 gennaio del 1992, in un elegante residence alla periferia di Caracas. Gli investigatori che gli davano la caccia intercettarono infatti una sua telefonata, la sera di capodanno del 1991, che permise loro di individuarlo
Le autorità italiane avviarono immediatamente le pratiche per il trasferimento del boss in Italia e, il 4 ottobre dello stesso anno, Abbatino fu espulso dal Venezuela e preso in consegna dagli uomini della Mobile e riportato in patria dove decise subito di intraprendere un percorso di collaborazione con la magistratura, spinto da un grosso sentimento di rivalsa nei confronti dei suoi ex amici, aumentato anche dal fatto che, durante la sua latitanza, si erano resi protagonisti dell'omicidio del fratello Roberto, torturato a morte per cercare di scoprire il rifugio di Crispino. Il suo corpo, completamente massacrato e con il petto squarciato da una coltellata finale, riaffiorò alcuni giorni dopo dal fiume Tevere, all'altezza di Vitinia.
Grazie al pentimento di Abbatino (a cui poi seguirono anche quelli di Antonio Mancini e di Fabiola Moretti), la mattina del 16 aprile 1993, con la mobilitazione di 500 agenti della Squadra Mobile, scattò una gigantesca operazione di polizia denominata "Operazione Colosseo": un fascicolo di cinquecento pagine pieno zeppo di date, nomi e prove che consentì di ridisegnare la mappa dell'organizzazione malavitosa romana e di stabilire con precisione ruoli e responsabilità dei vari componenti, dal quale scaturirono sessantanove ordini di cattura firmati dal giudice istruttore Otello Lupacchini, di cui una decina vennero consegnati in carcere ad altrettanti detenuti. Le sue confessioni, che in gran parte confermarono quelle dei precedenti collaboratori Fulvio Lucioli e Claudio Sicilia (a cui però gli investigatori non concessero il credito necessario), furono poi il punto di partenza di un maxiprocesso che vide alla sbarra l'intera banda che, colpita al cuore dal lavoro della magistratura (oltre che dagli omicidi interni alla stessa), si avviò verso il declino completo
LA BANDA OGGI
Anche se il nucleo storico della banda della Magliana, decimato da arresti, omicidi e da pentimenti, ha forse smesso di controllare i centri nevralgici del crimine romano, molti segnali, tra i quali le parole del pentito Mancini ed alcuni fatti di cronaca, sembrano avvalorare la tesi secondo la quale l'organizzazione criminale, o ciò che ne resta, sia ancora attiva e vegeta.
- Il 18 ottobre del 2002 veniva ucciso colpi di arma da fuoco Paolo Frau, 53 anni ed ex luogotenente di "Renatino" De Pedis e poi a capo di un'organizzazione criminale operante sul litorale romano, freddato mentre saliva a bordo sulla sua auto nei pressi della sua abitazione, in via Francesco Grenet ad Ostia Lido. Uno dei dei due killer in moto, con il volto coperto da caschi integrali, dopo aver fatto scattare l'antifurto della sua BMW, attese Frau in strada e lo colpì con tre pallottole a bruciapelo. Assolto in appello nel maxi-processo alla banda, era diventato il luogotenente di Emidio Salomone nella piazza di Ostia, dove assunse il controllo delle nuove attività sul litorale, del racket delle estorsioni e del gioco clandestino. Il suo delitto è, ad oggi, ancora irrisolto
- Il 29 febbraio 2008, nel quartiere romano di Centocelle, viene assassinato con un colpo di pistola alla testa Umberto Morzilli, 51 anni, colpito da due sicari in moto che lo bloccano in piazza delle Camelie mentre, a bordo della sua Mercedes, aveva cercato di aprire la portiera nel tentativo di sottrarsi all'agguato. Un passato da carrozziere e poi, affiliato alla banda, prima come spacciatore e successivamente come grosso trafficante di droga. Nel 2002, cominciò a fare affari con Danilo Coppola e, nel 2003, venne arrestato per estorsione assieme a Antonio "Tony" Nicoletti (figlio di Enrico Nicoletti, cassiere della Banda)
- Maurizio Lattarulo, chiamato “Provolino”, nel luglio del 2008 ha ricevuto un incarico da esterno per le Politiche Sociali al comune di Roma da parte di Gianni Alemanno. Lattarulo, coinvolto e prosciolto in una indagine sui Nar, da luglio a dicembre 2008 avrebbe ricevuto dal Comune poco più di 13mila euro e nei due anni successivi quasi 31 mila euro. Attualmente (luglio 2012) è segretario particolare dell’attuale presidente della Commissione politiche sociali, Giordano Tredicine
- Il 4 giugno 2009 viene assassinato Emidio Salomone, 55 anni ed un passato nella banda; viene freddato da due killer in moto che gli sparano due colpi di pistola al volto, davanti a una sala giochi di via Cesare Maccari ad Acilia, nella perfieria di Roma Sfuggito nel novembre del 2004 al bliz contro gli eredi della banda, nel quale finirono in manette 18 persone, Salomone venne poi arrestato in Danimarca nel 2005 ma, rimesso in libertà prima ancora di essere estradato dopo una decisione del Tribunale del Riesame di Roma, era rientrato in Italia dove aveva ripreso a lavorare nel racket delle estorsioni, dell'usura e del traffico di droga ad Ostia. Il 12 settembre del 2011 per omicidio premeditato aggravato dal metodo mafioso e in concorso con altre due persone, finisce in manette Massimo Longo con l'accusa di essere il mandante del delitto Salomone il cui movente sarebbe stato lo spaccio di eroina nella piazza di Acilia
- Il 23 febbraio 2010, nell'ambito di una inchiesta sul riciclaggio di capitali legati alla 'Ndrangheta, il senatore del PDL Nicola Di Girolamo, viene accusato di aver partecipato ad un sodalizio criminale che, assieme a Gennaro Mokbel, personaggio collegato in passato ad ambienti della destra eversiva, avrebbe riciclato oltre 2 miliardi di euro e favorito l'elezione del senatore nel collegio estero di Stoccarda, ad opera dalla famiglia Arena, 'ndrina di Isola Capo Rizzuto Gennaro Mokbel è, tra l'altro, un uomo legato ad Antonio D’Inzillo che, considerato uno dei killer del boss della Magliana Enrico De Pedis, fu arrestato dalla polizia il 22 maggio del 1992 proprio nell'abitazione dello stesso Mokbel, che per questo motivo venne anche denunciato. Nel 1993, D'Inzillo riuscì comunque a fuggire all'estero, schivando il mandato di cattura a suo carico (proprio per per l'omicidio di Renatino) all'interno della famosa Operazione Colosseo che, grazie alle dichiarazioni del pentito Maurizio Abbatino, diede il via al maxiprocesso che decapitò l'intera banda della Magliana. Una latitanza la sua che, l'ordinanza del gip Aldo Morgioni, sostiene sia stata finanziata proprio da Mokbel e che ha termine il 26 giugno 2008 quando viene resa pubblica la notizia della sua morte in un ospedale di Nairobi, in Kenia. Il suo corpo, frettolosamente cremato, non venne mai messo a disposizione della magistratura italiana
- Il 21 settembre del 2010, nell'ambito di una grossa operazione antiriciclaggio disposta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e condotta dalla polizia di Stato che mette fine ad una organizzazione criminale dedita all'usura, al riciclaggio di denaro, al millantato credito, alle estorsioni e alle truffe, porta all'arresto di 11 persone e a numerosissime perquisizioni. Le persone coinvolte sono esponenti della criminalità organizzata romana e napoletana, tra i quali spicca il nome di Enrico Nicoletti, il cosiddetto cassiere della Banda della Magliana. L'indagine era partita dall'omicidio di Umberto Morzilli del febbraio 2008, personaggio legato all'immobiliarista Danilo Coppola
- Il 2 ottobre del 2010 le Squadre Mobili di Roma e Caserta sventano una rapina al caveau di un istituto di credito sito in pieno centro della cittadina campana e arrestano 7 persone tra cui il pluripregiudicato Manlio Vitale, 61 anni e detto Er Gnappa, ex esponente della banda ed amico fraterno di Enrico De Pedis. I sette, sorpresi al lavoro mentre effettuavano il carotaggio di una parete in cemento armato, furono bloccati quando oramai erano a pochi centimetri dal caveau. Arrestato già nel ’78, ’80 e nel 1985, Vitale fu anche coinvolto nell’omicidio di un altro componente della Magliana, Amleto Fabiani e, infine, nel 2000, venne accusato di essere uno dei mandanti del furto di 147 cassette di sicurezza sottratte al caveau della Banca di Roma di piazzale Clodio
- Il 5 luglio 2011, il trentatreenne Flavio Simmi viene ucciso con 9 proiettili esplosi a distanza ravvicinata in un agguato in pieno giorno in via Grazioli Lante, nel quartiere Prati, nel centro di Roma. L'uomo che, era già stato gambizzato solo pochi mesi prima, nel febbraio dello stesso anno, è figlio di Roberto Simmi e nipote di Tiberio, accusati in passato di usura e ricettazione e arrestati (ma poi prosciolti da ogni accusa), nel 1993, nell'ambito dell'Operazione Colosseo perché ritenuti legati al nucleo storico della banda della Magliana. Un’informativa della polizia li descrive in questo modo: «Roberto Simmi è il fratello del più noto Tiberio, più volte visto in compagnia di Enrico De Pedis. Tiberio, con il figlio Alessio, gestisce un negozio di oreficeria assiduamente frequentato da Maurizio Lattarulo, detto Provolino. Presso il negozio di piazza del Monte, invece, è stata rilevata anche la presenza di Antonio Mancini e di Raffaele Pernasetti. Inoltre dall’intercettazione telefonica ancora in corso si è potuto stabilire che il negozio è stato, per un periodo di tempo, frequentato dal famoso faccendiere Ernesto Diotallevi inquisito unitamente ai noti Francesco Pazienza, Flavio Carboni e altri pregiudicati della vecchia Banda della Magliana per le vicende del crack del banco Ambrosiano e per l’attentato al vice direttore Roberto Rosone, durante il quale viene ucciso uno degli attentatori, Danilo Abbruciati. Nelle attività dei fratelli Simmi investiva Franco Giuseppucci il quale ricettava titoli di credito e polizze e, per conto terzi, riciclava denaro sporco presso gli ippodromi e le sale corse.»
- Il 6 luglio 2011, viene nuovamente arrestato Enrico Nicoletti con l'accusa di "associazione a delinquere finalizzata alla commissione di millantato credito, truffa, usura, falso, riciclaggio e ricettazione" nell'ambito di una operazione anti-usura e anti-riciclaggio nei confronti di un gruppo criminale dedito alle truffe nel settore immobiliare legato alle aste giudiziarie e di cui Nicoletti sarebbe stato a capo.
- Il 28 aprile 2012 la banda torna di nuovo sulle prime pagine dei quotidiani italiani. Durante un tentativo di rapina nei confronti di due fratelli commercianti di gioielli, nel nuovo quartiere di Mezzocammino (Spinaceto) sito alla periferia sud-ovest della capitale, uno dei malviventi viene ucciso, colpito al petto dopo un violento conflitto a fuoco. Si tratta di Angelo Angelotti, 61 anni e componente storico della Magliana che, nel 1995, era già finito sotto processo per l'omicidio di De Pedis perché ritenuto tra coloro che lo attirarono nella trappola in via del Pellegrino vicino a Campo di Fiori, dove poi fu ucciso