INGEGNERIA GENETICA

INGEGNERIA GENETICA
 

Con il termine generico di ingegneria genetica (più propriamente tecnologia del DNA ricombinante) si fa riferimento ad un insieme molto eterogeneo di tecniche che permettono di isolare geni, clonarli, introdurli e esprimerli in un ospite eterologo (differente dall'ospite originale). Queste tecniche permettono di conferire caratteristiche nuove alle cellule riceventi. Le cellule così prodotte sono chiamate ricombinanti. L'ingegneria genetica permette anche di alterare la sequenza di DNA del gene originale e di produrne uno più adatto a rispondere ad esigenze specifiche, come avviene ad esempio per quanto riguarda gli OGM.

Il primo passo di tali tecniche di manipolazione dei geni è stato certamente la scoperta degli enzimi di restrizione, per la quale Werner Arber, Daniel Nathans e Hamilton Smith ricevettero il Premio Nobel per la Medicina nel 1978.
Il processo avviene in varie fasi:

  • estrazione di DNA da cellule eucariote e procariote
  • frammentazione delle molecole di DNA in segmenti più corti
  • identificazione e separazione dei diversi frammenti isolati in cellule ospiti, spesso diverse dalle cellule da cui proviene il DNA isolato.

Le cellule ospiti con genoma manipolato possono esprimere i geni estranei, possono anche riprodursi e fungere da sistemi di amplificazione del gene stesso.

Per estrarre il DNA bisogna rompere le cellule trattandole con sostanze litiche e detergenti. Le molecole di DNA, separate dalla miscela di cellule con tecniche purificanti, vengono tagliate in frammenti più piccoli. Per effettuare ciò si utilizzano enzimi di restrizione, o endonucleasi di restrizione. Esse non tagliano la doppia elica a caso, bensì agiscono in sequenze bersaglio di nucleotidi creando delle estremità appiccicose/coesive (che contengono delle sequenze palindrome). Il taglio avviene mediante idrolisi. Si ottengono un numero variabile di filamenti di DNA di lunghezza variabile, legato alla presenza di sequenze bersaglio che si trovano nei plasmidi. I frammenti di DNA plasmidico e quelli di DNA eucariotico vengono legati insieme grazie alle sequenze coesive con l’intervento di DNA ligasi. I suddetti enzimi di restrizione associati ad una classe di molecole note come ligasi, costituiscono il primo vero kit delle tecnologie del DNA ricombinante. Tale espressione è spesso usata per intendere le varie tecniche utilizzate dall'ingegneria genetica.

Il termine più corretto per identificare un organismo con informazioni genetiche di provenienza esterna è organismo transgenico. Nel linguaggio comune sono utilizzati anche organismo geneticamente modificato o geneticamente ingegnerizzato.

Se da un punto di vista di ricerca pura queste tecniche sono molto importanti per comprendere a fondo la funzione di una determinata proteina, il fine ultimo è quello di conferire a determinati organismi caratteristiche importanti per svolgere determinati scopi. Tali scopi possono essere applicati ai campi più svariati, come ad esempio quello agricolo (ad esempio la produzione di linee di cereali resistenti agli erbicidi) o quello biomedico (la produzione di insulina attraverso batteri).

Sebbene la conclusione del Progetto Genoma Umano abbia portato una vera e propria rivoluzione nel mondo delle scienze biologiche, ponendo fine di fatto all'era della genomica, rimangono tuttora numerose sfide che attendono la ricerca in questo campo. Il sequenziamento dell'intero genoma umano, oltre a quello di numerose altre specie viventi, ha infatti reso estremamente semplice, se non banale, ottenere informazioni sulla composizione di un gene o di un segmento di DNA: i miliardi di nucleotidi finora sequenziati, infatti, sono largamente disponibili nelle banche dati presenti su internet.

Le sfide della post-genomica

La sfida più grande che la ricerca sta raccogliendo in questi anni di post-genomica consiste nell'individuazione e nella caratterizzazione dei prodotti proteici di ogni gene. Quello della cosiddetta proteomica, dunque, è un compito ben più complesso, essendo meno meccanico del mero sequenziamento del DNA. La rivisitazione che il dogma centrale della biologia molecolare ha subito in questi anni, complica ulteriormente le cose. Oggi appare infatti chiaro che la classica definizione "un gene, un trascritto, una proteina" appare quantomeno insufficiente, se non sbagliata. Esistono infatti numerosi geni che, trascritti, vanno incontro a splicing alternativo. Esistono numerosi trascritti di RNA che non vengono a loro volta tradotti. Non esiste nemmeno una cifra certa dei geni presenti nel genoma umano: le stime proposte al termine del sequenziamento del genoma (circa 30-40 000 geni) sono state ridotte a circa 25 mila.

Per tutti questi motivi, l'era post-genomica si sta notevolmente specializzando. Oltre alla già citata proteomica (che studia il proteoma, l'incredibile numero di proteine e le loro interazioni), si stanno diffondendo la trascrittomica, la metabolomica ed una gran quantità di -omics (dall'originale inglese della terminazione -omica).

Il ruolo dell'ingegneria genetica nella post-genomica

L'ingegneria genetica è oggi il gold standard nella ricerca sulle proteine. Tra gli strumenti di base che essa mette a disposizione figurano i seguenti.

  • Studi di loss of function (dall'inglese, perdita di funzione). Si tratta di esperimenti, genericamente chiamati di knock-out, che permettono di ingegnerizzare un organismo in modo tale da eliminare l'attività di un determinato gene. Ciò permette di studiare il difetto causato da questa mutazione, e può essere utile come screening iniziale della funzione di un gene. Spesso viene utilizzato in biologia dello sviluppo. Un esperimento di knock-out viene messo a punto attraverso la manipolazione in vitro di un costrutto di DNA che, nelle versioni base di un esperimento di knock-out, consiste nel gene di interesse modificato a sufficienza per perdere la funzione originale. Questo costrutto può essere poi inserito in una cellula in coltura, all'interno della quale sarà in grado di sostituire la versione originale (detta wildtype) del gene. Se le cellule che ricevono tale costrutto sono cellule staminali, esse possono essere inserite in una blastocisti, a sua volta inserita nell'utero di madri surrogate. Con questa tecnica, chiamata Embryonic Stem Cell Transfer (dall'inglese, trasferimento di cellule staminali embrionali), è possibile realizzare un organismo transgenico. Un metodo più semplice per lo screening di knock-out, che tuttavia può essere applicato solo ad animali meno complessi, consiste nell'induzione di mutazioni casuali in una popolazione molto ampia (ad esempio di Drosophila melanogaster, il moscerino della frutta). La progenie verrà strettamente analizzata alla ricerca della mutazione che si intende studiare. Tale metodo è correntemente utilizzato per gli organismi unicellulari, specialmente prokaryota, e talvolta per le piante.

 

  • Studi di gain of function (dall'inglese, acquisizione di funzione). Si tratta della logica controparte della produzione di knock-out. Sono spesso portati avanti insieme ai knock-out per valutare in modo più fine la funzione dei geni in esame. I procedimenti che vengono svolti per introdurre una mutazione ''gain of function sono molto simili a quelli utilizzati per produrre knock-out. In questo caso il costrutto porterà con sé alcuni accorgimenti tali da incrementare l'espressione della proteina (come ad esempio un promotore forte).
  • Studi con traccianti. Permettono di individuare l'esatta localizzazione e l'interazione della proteina in esame. Un metodo per ottenere ciò consiste nella sostituzione del gene wildtype con un gene di fusione, contenente il gene originale fuso con una terminazione visibile dall'operatore. Un esempio di tali terminazioni visibili è la GFP (dall'inglese Green Fluorescent Protein, proteina fluorescente verde). Tale proteina è molto utile perché permette nella maggior parte dei casi un corretto funzionamento della proteina originale con cui è fusa: uno dei principali problemi legato a questo tipo di tecnica consiste infatti nell'instabilità della maggior parte delle proteine di fusione. Il desiderio dell'operatore in questo tipo di saggi, infatti, è quello di seguire la proteina, non di modificarne i parametri strutturali e funzionali. Una strategia attualmente in sviluppo per migliorare la stabilità dei prodotti di fusione è la possibilità di realizzare code facilmente riconoscibili attraverso la somministrazione di anticorpi.

Applicazioni industriali

Il primo farmaco ottenuto ingegnerizzando un sistema vivente (batterico) è stato l'insulina, approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) nel 1982. Anche l'ormone della crescita umano, precedentemente estratto dai cadaveri, fu rapidamente ingegnerizzato. Nel 1986 la FDA approvò il primo vaccino umano ricombinante, contro l'epatite B. La produzione industriale di farmaci utilizzando i sistemi viventi come bioreattori si è da allora largamente diffusa, diventando attualmente la via preferita di sintesi di numerosi farmaci, in particolare per il costo di produzione relativamente basso.

La produzione di molecole attraverso sistemi biologici è oggi ampiamente sfruttato anche nell'industria alimentare: per la produzione di alimenti nutraceutici, arricchiti cioè con alcune molecole, si può servire di sistemi biologici modificati di specie vegetali e animali.

A cosa servono gli animali OGM?
 

Dopo le piante è stata la volta degli animali. Utilizzando le stesse tecniche di manipolazione dei geni che vengono impiegate per i vegetali, si è scoperto che era possibile intervenire anche sul Dna di organismi più complessi, cominciando dai batteri fino ai mammiferi superiori. Modificare alcune caratteristiche degli animali per renderli più "redditizi" dal punto di vista del mercato alimentare, è un’idea che sta guidando numerosi progetti, già in fase sperimentale, soprattutto nel campo dell’ittiocoltura.

Un altro settore, sempre in ambito zootecnico, su cui si concentra l’interesse dei ricercatori è la produzione di animali resistenti alle infezioni, allo scopo di ridurre l’impiego di antibiotici negli allevamenti. Tuttavia la complessità degli animali superiori rende la manipolazione genetica molto più difficile, e quindi più costosa, di quella relativa ai vegetali, una constatazione che, almeno fino a oggi, ha frenato quei massicci investimenti sulla produzione alimentare che si sono visti, invece, nelle applicazioni agricole.

Gli animali transgenici sono tuttora un terreno privilegiato per la ricerca bio-medica, mentre l’industria zootencica se ne sta in disparte, attendendo promettenti sviluppi. Vengono definiti bio-reattori quegli organismi, che siano piante o animali, i cui geni sono stati modificati al fine di produrre farmaci o proteine umane. L’Università del Maryland sta già sperimentando su alcuni volontari una patata in cui è stto inserito un gene che stimola il sistema immunitario umano a combattere i parassiti intestinali. Allo stesso modo gli animali vengono modificati con l’obiettivo di fargli esprimere un farmaco o una proteina umana direttamente nel latte.

La pecora Dolly, primo esempio di clonazione animale, è nata proprio nell’ambito di un progetto di questo genere, un esperimento che comincia a dare i suoi frutti se si pensa che dal latte di alcuni conigli trangenici viene già estratta l’interleuchina-2, una proteina umana implicata nella regolazione del sistema immunitario che viene somministrata ai malati di cancro, mentre dal latte di capra si ricava l’attivatore tissutale del plasminogeno, una scioglie i coaguli del sangue.Viene somministrato agli infartuati.

Un altro settore in fase di avanzata sperimentazione è quello degli xenotrapianti, come vengono definiti i trapianti fra specie diverse. Si tratta di produrre animali transgenici modificati per renderli donatori d’organi compatibili con gli esseri umani.

In questi animali vengono inseriti alcuni frammenti di genoma umano per renderli biologicamente conpatibili con gli esseri umani al fine di ridurre qualsiasi problema di rigetto. Per una certa affinità genetica i maiali sono considerati i candidati migliori: vanno bene come donatori di importanti organi, quali il fegato, e funzionano anche per il trasferimento di cellule specifiche, come quelle del pancreas.

Un altro settore a cui gli scienziati stanno lavorando riguarda l’impiego cosiddetto "ecologico" di animali transgenici. Alcuni microrganismi osservano una dieta a base di inquinanti, quali gli idrocarburi e i metalli pesanti. Opportunamente ingegnerizzati per accelerare il loro metabolismo, tali batteri possono venire utilizzati per depurare delle zone contaminate perché attraverso la digestione i microrganismi accelerano la dissoluzione delle sostanze inquinanti che sarebbe altrimenti molto lenta. In futuro si prevede di impiegare l’ingegneria genetica anche per ricreare delle specie in via di estinzione. E’ ciò che avevano in mente alcuni ricercatori cinesi che hanno tentato di impiantare, attraverso le tecniche sperimentate con Dolly, alcune cellule di panda adulti nelle uova di altre specie. Per riprodurre più rapidamente questo raro animale.

La tecnologia della manipolazione genetica applicata agli organismi complessi però è ancora in fase sperimentale. Questo significa che non si è ancora trovato un modo per produrre animali geneticamente modificati su larga scala e a basso costo, come alternativa agli allevamenti industriali. Sono però già in vendita alcuni farmaci ricavati da bio-reattori, ovvero prodotti impiegando animali transgenici.

Buona parte della ricerca farmaceutica si avvale invece di cavie ingegnerizzate. I topi con geni mutati per causare particolari tumori, o per contrarre specifiche malattie, sono diffusamente utilizzati nella ricerca e nella sperimentazione di nuovi farmaci. L’applicazione dell’ingegneria genetica per favorire i trapianti fra specie.

I cosiddetti xenotrapianti, è invece ancora molto controversa. E’ considerata rischiosa, in quanto si teme la diffusione di malattie e virus transpecifici, come il morbo della "mucca pazza", e pone seri problemi etici. Si possono clonare animali scomparsi come in Jurassic Park? Ci sono, nel mondo, alcuni progetti del genere. Un veterinario giapponese , il dottor Kasufumi Goto, ad esempio, è a caccia dei resti di un mammut proprio per poterlo clonare. Goto ha dimostrato che iniettando lo sperma di un toro morto negli ovuli di una mucca poteva ottenere un embrione vivo e ora vuole resuscitare il pachiderma seguendo lo stesso procedimento. I ricercatori più seri, però, sostengono che è impossibile trovare del DNA intero risalente a quelle epoche, visto che nei tessuti surgelati il materiale genetico tende a frammentarsi.

Si possono riconoscere?

Non ci sono differenze evidenti tra piante transgeniche e piante tradizionali, e neppure tra cibi transgenici e cibi preparati con alimenti non modificati geneticamente.

Le piante transgeniche, secondo i test forniti dalle aziende produttrici di sementi, sono potenzialmente più produttive di quelle tradizionali: circa il 10 per cento.

Questa caratteristica però non è dovuta a una differenza strutturale delle piante, ma al fatto che si verificano minori perdite di raccolto per la resistenza ad antiparassitari e diserbanti.

Se un mais transgenico e un mais tradizionale vengono coltivati in due campi adiacenti la differenza appare solo quando subiscono l’attacco dalle larve di piralide. Il primo resta in piedi, il secondo si spezza e cade a terra. E se il parassita arriva quando le pannocchie stanno maturando, nel primo caso non perdono granelli, nel secondo si avvizziscono. Più difficile è individuare la soia resistente ai diserbanti. La pianta è identica a quella tradizionale tranne per il fatto che, quando viene irrorata accidentalmente, non ingiallisce.

La semplice osservazione dunque non vasta per individuare le caratteristiche transgeniche, che invece vanno cercata con altri strumenti.

Uno di questi è la Pcr (Polimerase chain reaction) o reazione a catena di polimerasi. Tramite la Pcr, si riesce ad ottenere materiale sufficiente per verificare la presenza di materiale transgenico. Deve però trattarsi di materiale integro e non di sostanze derivate.

L’Europa però importa quantità notevoli di mais e soia Ogm che risultano indistinguibili perché già all’origine, nei magazzini di raccolta, vengono mescolate con quelle tradizionali. Buon parte della soia poi viene inserita nel mercato europeo come lecitina, un prodotto che viene estratto dai semi e che viene usato come additivo negli alimenti.

I laboratori hanno messo a punto sistemi di analisi che però consentono di rintracciare anche tracce di Ogm.

Che effetti ha sulla salute?

La risposta non è rassicurante, ma almeno nemmeno terrorizzante. Semplicemente, non si dispone ancora di sufficienti dati per rispondere a questa domanda. Esistono moltissimi dati sui danni provocati dai pesticidi spruzzati sulle coltivazioni, così come abbondano gli studi sui rischi connessi all’impiego degli antibiotici negli allevamenti industriali, ma gli effetti degli OGM sono ancora sconosciuti.

Per conoscere gli effetti di una sostanza assunta per un lungo periodo occorrono parecchi anni e studi imparziali, mentre, fino a oggi, la maggior parte delle ricerche condotte sull’argomento sono state commissionate dalle stesse case che producono gli OGM. Solo di recente sono stati pubblicati i risultati di alcuni test indipendenti, e i risultati non sono stati incoraggianti.

Una delle maggiori difficoltà che hanno riscontrato gli esperti nel cercare di dare una valutazione d’insieme, sta nell’enorme varietà delle mutazioni che si possono indurre. A seconda che un gene venga inattivato, modificato o potenziato, e a seconda di quale gene e in quale specie, ci possono essere ricadute molto diverse sulla salute dei consumatori. Tuttavia, essendo la tecnologia impiegata abbastanza omogenea, ci sono alcune fasi che riguardano un po’ tutte le manipolazioni, come l’utilizzo di geni "marcatori" per individuare le cellule dove la mutazione è avvenuta con successo.

Generalmente al gene che si vuole modificare, per esempio un gene che rende la pianta resistente al freddo, viene allegato un gene particolare che serve a rendere "visibile" la mutazione avvenuta. Su questa scala, però la visibilità è puramente virtuale e viene quindi utilizzato un gene che conferisce un’altra forma di resistenza: quella agli antibiotici. In questo modo, una volta completata la "transfezione", come si chiama l’inserimento del gene modificato, le cellule verranno immerse in un brodo di antibiotico e sopravviveranno solo quelle geneticamente modificate.

Ma, come ha denunciato più volte l’Organizzazione Mondiale della Sanità, un aumento di resistenza agli antibiotici è un problema sanitario serissimo, e introdurre un gene della resistenza nella catena alimentare non sembra proprio una buona idea.

Ci sono poi dei tipi particolari di OGM che, invece di consentire una riduzione dell’impiego di sostanze chimiche nell’agricoltura, di fatto la incrementano. E’ il caso della soia geneticamente modificata per resistere a un erbicida, entrambi prodotti dalla stessa casa farmaceutica, la Monsanto. Ovviamente più la pianta di soia è resistente all’erbicida più ne verrà spruzzato,a crescendo la quantità di sostanze chimiche che vanno a finire nella catena alimentare e nell’ambiente. Un altro problema è quello delle allergie. Di fatto non è stato dimostrato che gli OGM sono allergenici, ma nemmeno il contrario, e in questi casi dovrebbe prevalere la prudenza.

E’ vero che ormai tutti i cibi in commercio sono geneticamente modificati? No. E’ vero che negli USA e in Inghilterra sono già in commercio alcuni prodotti transgenici di largo consumo, come i pomodori, le patate o il radicchio, ma nel nostro paese non sono permessi, anche se è consentito il loro utilizzo come materie prime alimentari per cibi preconfezionati.

Soia e mais, ad esempio, sono molto diffusi come additivi vegetali. I prodotti lavorati in Italia invece possono contenere materie prime alimentari, per esempio la soia, provenienti da paesi che invece fanno largo impiego di OGM. Si calcola che quali la metà dei raccolti statunitensi e canadesi sono ormai transgenici, anche se sono in aumento gli agricoltori che chiedono di tornare al naturale. In Italia un crescente numero di supermercati si dichiarano GM free, ovvero garantiscono che nei prodotti a proprio marchio non sono state utilizzate materie prime geneticamente modificate.

La normativa attuale impone l’obbligo di etichetta sui prodotti interamente transgenici ma non sui derivati, cioè sui prodotti nei quali siano stati impiegati gli OGM. Se una patata transgenica deve venire etichettata come tale, un prodotto preconfezionato in cui sia stato utilizzato un additivo vegetale geneticamente modificato non richiede nessuna segnalazione. Esiste una normativa europea a riguardo, che stabilisce una soglia di presenza degli OGM al di sopra della quale vanno etichettati anche i prodotti derivati, ma il regolamento, peraltro non particolarmente chiaro, non è ancora stato compiutamente recepito, cioè trasformato in legge, da alcuni paesi dell0’unione come l’Italia. Bisogna quindi fidarsi delle iniziative dei distributori.

E non è vero che non esiste un modo per rintracciare i derviati dagli organismi transgenici. Attraverso la Reazione a catena della polimerasi, un test abbastanza semplice, si possono amplificare anche frammenti infinitesimali di DNA, fino a renderli rintracciabili. Il fatto poi, che frammenti così microscopici possano avere un impatto negativo sulla salute è un’altra questione. Per alcuni è impossibile, per altri molto probabile.

Che effetti hanno sull'ambiente?

Mentre l’impatto negativo sulla salute è ancora tutto da dimostrare, le preoccupazioni relative all’impatto sull’ambiente delle piante transgeniche sono molto realistiche. Le modificazioni che vengono sperimentate sono talmente tante, e l’ecosistema è talmente complesso, che difficilmente gli effetti di tale teconologia potranno venire controllati.

L’evoluzione naturale ha avuto a disposizione centinaia di migliaia di anni per ricalibrare le complesse interazioni degli ecosistemi saltate a ogni mutazione genetica o ambientale. L’ingegneria genetica sceglie di ignorare del tutto l’importanza del fattore tempo, e questa scelta non può non spaventare.

Un altro aspetto che preoccupa i ricercatori riguarda il progressivo ridursi della biodiversità e della varietà genetica delle piante, una tendenza incrementata dall’uniformità degli organismi geneticamente modificati. Inoltre, piante modificate per resistere ai parassiti possono creare dei super-insetti, trasmettendo la loro resistenza a questi animali. Infine l’agricoltura "senza terra" progettata dagli ingegneri dei geni, non tiene conto delle molteplici funzioni che rivestono le coltivazioni: non solo produzione di alimenti, ma anche la conservazione del territorio e delle risorse idrogeologiche.

Dato tempi delle nostre nonne la varietà delle piante è andata via via riducendosi. Alla riduzione della biodiversità causata dalla distruzione delle foreste tropicali si è sommata la riduzione delle varietà coltivate a scopo commerciale.

Quest’uniformità genetica è molto pericolosa per l’ambiente perchè, di fatto, la diversità è una delle principali risorse che la natura ha per difendersi dalle mutazioni ambientali. In un campo di piante tutte uguali l’invasione di un insetto nocivo fa "terra bruciata". In un campo naturale, invece, alcune piante, si salveranno trasmettendo alla propria discendenza la resistenza a quell’insetto.

Questo è il principale motore dell’evoluzione, che ci ha portati a essere ciò che siamo. Le coltivazioni transgeniche, oltre a spingere verso una maggiore uniformità, introducono in natura mutazioni impreviste, a un ritmo molto più rapido di quello dell’evoluzione naturale. E’ stato osservato, per esempio, che una pianta modificata per diventare resistente a un insetto dannoso ha finito con lo sterminare anche un altro insetto, la farfalla monarca, molto utile all’ecosistema della regione.

Ma può anche succedere che la resistenza venga trasmessa all’insetto. In questo caso la pianta modificata funziona per un pò, nel senso che non ammala perchè avvelena l’insetto che se ne nutre, salvo poi, dopo qualche raccolto, scoprire che anche l’insetto è diventato resistente, sia alla tossina biotecnologica presente nella pianta che ai vecchi pesticidi chimici.

Anche questo processo, osservato in alcune coltivazioni di cotone transgenico, preoccupa i ricercatori, sia perchè può mettere in circolazione dei super-insetti incontrollabili sia perchè condurrebbe, alla fine, a un maggiore impiego di sostanze chimiche.

Alcune piante, per esempio il mais o il cotone per la resistenza al Bacillus thuringensis, sono state modificate per ridurre gli insetticidi, anche se non hanno prodotto i risultati sperati. Altre, come la soia resistente all’erbicida, si propongono proprio l’opposto: rendere la pianta resistente a dosi più massicce di additivo chimico.

La maggior parte delle coltivazioni transgeniche, però, rispondono a un obiettivo economico: produrre di più, e più in fretta. Una coltivazione normale può poi venire inquinata da una transgenica. Il polline delle piante può percorrere centinaia di metri. E’ per questo motivo che le coltivazioni sperimentali, i cosiddetti "rilasci", vengono tenute segregate dalle coltivazioni normali.

Purtroppo però ciò avviene solo quando questi esperimenti sono condotti da istituti scientifici a fini di ricerca. Simili cautele sono rare nelle coltivazioni a fine commerciale, che sono molto più estese e meno controllate. La recente decisione dell’EPA statunitense, l’Agenzia per la Protezione Ambientale, va in controtendenza proponendo misure più restrittive anche per le coltivazioni commerciali.

Ci sono coltivazioni transgeniche nel nostro Paese? Si. Vengono gestite da istituti di ricerca oppure date in gestione a normali aziende agricole dalle industrie che producono semi transgenici. Coltivazioni commerciali su larga scala ancora non ce ne sono, ma per il piano semina del 2000 potrebbe venire data l’autorizzazione, visto che alcune piante GM hanno passato tutti i test sperimentali previsti.

Che poi questi test siano considerati insufficienti da buona parte di ricercatori e degli ambientalisti è un’altra questione

Vantaggi o danni per l'economia?

Gli accesi sostenitori delle biotecnologie applicate all’agricoltura dipingono panorami allettanti: piante più nutrienti, progettate per crescere nel deserto o per ridurre l’impiego di sostanze chimiche.

Di fatto, però, la maggior parte delle ricerche in questo campo viene condotta da veri e propri giganti dell’agrochimica che mirano principalmente all’aumento della produttività al fine di massimizzare i profitti.

Per questo motivo quasi tutte le piante transgeniche in commercio sono progettate per "funzionare" bene su larga scala, ovvero in coltivazioni intensive molto estese su territori omogenei come le grandi pianure americane o cinesi.

Le biotecnologie agricole sembrano non andare molto d’accordo nè con la conformazione territoriale europea, molto diversificata, nè con le sue esigenze economiche, in quanto l’eccesso di produzione agricola costituisce già un problema.

Un discorso valido in particolar modo per l’Italia, dove il territorio è ancora più differenziato così come lo sono le sue culture alimentari. Il nostro paese deteneva, l’anno scorso (1999 n.d.r.), appena 2 dei 185 brevetti biotecnologici europei, che già sono un numero estremamente ridotto rispetto a quelli statunitensi.

Più che costituire un’occasione di rilancio della ricerca scientifica e dell’occupazione, come sostiene Assobiotec, l’associazione delle aziende biotecnologiche, il via libera ai brevetti e al rilascio di organismi modificati rischia di trasformare il nostro paese in un gigantesco laboratorio a cielo aperto.

Su oltre 972 esperimenti europei nel settore delle piante geneticamente modificate l’Italia è al secondo posto, con trecento siti di rilascio in un migliaio di luoghi sparsi per tutte le regioni. "Favorita", secondo gli esperti, dalla varietà del clima ma anche, soprattutto, dall’assenza di protocolli su ciò che viene chiamata biosafety – la sicurezza biologica – l’Italia più che luogo di ricerca sta diventando ottimo "poligono" dove Novartis, Monsanto e Pioneer possono condurre quegli esperimenti che i regolamenti di casa loro non consentirebbero.

Inoltre l’Italia non ha certo problemi di cultura alimentare, se mai al rilancio delle produzioni biologiche in tutto il mondo, proprio a causa della diffidenza dei consumatori nei confronti delle produzioni industriali, il nostro paese può rispondere con una forte tradizione basata sulla qualità e sulla differenziazione delle produzioni locali.

Il problema del transgenico italiano si presenta quindi dal suo lato prettamente economico, in parte perchè purtroppo la ricerca pubblica manca di finanziare quei settori, come la virologia vegetale, dove le biotecnologie potrebbero costituire un’occasione per ridurre l’impiego di sostanze chimiche, in parte perchè è impossibile separare il transgenico alimentare dalle proprie origini, cioè mezzo di produzione creato su misura per i giganti mondiali della chimica.

Di fatto la possibilità di produrre alcune piante di largo consumo, come i pomodori, direttamente in laboratorio, più che costituire un’occasione d’impiego avrebbe la conseguenza di trasformare i coltivatori in salariati delle grandi aziende straniere. E la ricchezza maggiore del nostro paese, ovvero la qualità alimentare e la differenziazione, verrebbero spazzate via.

I campi transgenici poi potrebbero contaminare quelli naturali, è la preoccupazione che condividono molti operatori dell’agricoltura biologica. Finchè le coltivazioni transgeniche sono tenute rigidamente segregate da quelle naturali il problema non sussiste. Nel momento in cui, però, il transgenico venisse coltivato a scopo commerciale, come già accade in Spagna, sarebbe molto difficile evitare l’impollinazione incrociata, ovvero l’incrocio accidentale fra specie naturali e specie modificate. Con quali conseguenze è ancora tutto da scoprire.

Coldiretti si è recentemente dichiarata contraria alle coltivazioni transgeniche a scopo commerciale, per i problemi accennati sopra. L’opposizione si sta saldando con quella delle associazioni di altri paesi, come la Confédération Paysanne francese e la National Family Farm Coalition americana, per organizzare un’opposizione a livello mondiale.

Le coltivazioni transgeniche vengono avvertite come una minaccia economica e ambientale, anche perchè non tengono conto di un aspetto dell’agricoltura che è la sua multifunzionalità. Le coltivazioni non vanno considerate solo dal punto di vista produttivo ma anche in vista del ruolo che svolgono nel mantenimento del territorio e nell’economia di una regione.