Cercando in Etiopia l’Arca dell’Alleanza

21.02.2013 15:41

 

Culla dell’umanità: qui sono stati ritrovati i resti di Lucy e Ardi, ominidi di oltre 3 milioni di anni fa. Alcova della storia d’amore (e d’astuzia) tra Salomone e Makeda, regina di Saba: lei voleva incontrarlo, lui le ha dato un figlio, futuro imperatore, e donato un’arma speciale, ora gelosamente custodita ad Axum

Se il paradiso terrestre fosse esistito veramente, il regista del nostro pianeta l’avrebbe collocato qui, nel Nord dell’Etiopia, dove tutto profuma intensamente di religione. Come il Lago Tana, nel Nord-Ovest dell’ex colonia italiana, la riserva d’acqua che rifornisce il Nilo Azzurro, nel quale siedono 37 isole (più una miriade di scogli affioranti e mini isolotti). Su ognuna sorge un monastero, una cappella o una croce. L’Etiopia è un’enclave di antichità in Africa, dove si respira sacralità in ogni villaggio, in ogni casa. Il cristianesimo qui non è stato importato dall’Europa, come nel resto del continente. È autoctono; frutto degli evangelisti, partiti dalla Palestina già il primo secolo dopo Cristo. Ma non solo. L’Etiopia è la culla dell’umanità. Da queste parti sono stati ritrovati i resti fossili di Lucy, un esemplare femminile di Australopithecus afarensis vissuto 3,2 milioni di anni fa, e quelli di Ardi, un Ardipithecus ramidus ancora più antico, 4,4 milioni di anni. Probabilmente i primi evangelisti scelsero come prioritaria la rotta verso sud-ovest. Scesero giù dalla Palestina nella penisola arabica e, dopo un salto sul Mar Rosso (anticamente si chiamava “Maris Erythraei”), entrarono nel Corno d’Africa, ricco di spezie. L’incenso era preziosissimo a Roma e quelli che oggi sono Somalia, Somaliland e Yemen ne erano gli unici produttori. Più difficile, per quelli che si erano proposti di diffondere il cristianesimo, sarebbe stato dirigersi verso la capitale dell’impero, dove la religione pagana era direttamente e strettamente intrecciata con il potere a sua volta profondamente interessato a difenderla. Lì ci arrivarono dopo. Quella che poi verrà chiamata Abissinia, e quindi Etiopia, sembrava una terra più fertile da convertire. Lì, infatti, viveva una popolazione che aveva abbracciato l’ebraismo un migliaio di anni prima, quando ad Axum, nella regione del Tigrè, regnava la mitica regina di Saba.

L’acqua nella pancia. Nella Bibbia, nel Corano e nel Vangelo la regina di Saba non viene mai citata per nome. Ma nel Kebra Nagast (“Gloria dei re”), testo sacro della religione cristiano-copta etiopica, viene rivelato il suo nome, Makeda. La storia della regina di Saba è circondata dalla leggenda. Anzi, da tante leggende. Se ne trovano diverse versioni sui libri: sempre simili, ma con dettagli differenti. Tutte concordano sul fatto che il suo regno era ricchissimo e si estendeva sugli altopiani etiopici e al di là del Mar Rosso nella penisola arabica. La capitale era Axum. I suoi abitanti adoravano il Sole. Quando la regina seppe che in un territorio chiamato Israele regnava Salomone, un uomo saggio, ingegnoso, dall’erudizione e dall’intelligenza eccezionali, decise di andarlo a trovare. Voleva porgli una serie di enigmi e sapere davvero se il sovrano fosse in grado di risolverli. Organizzò quindi un corpo di spedizione – siamo tra l’anno 1000 e il 950 avanti Cristo – e raggiunse Gerusalemme. La leggenda si dilunga sui preziosissimi doni al re, tra cui oltre una tonnellata d’oro. Ma Makeda non è solo ricca, intelligente, misericordiosa, generosa, abile e brillante. È anche bellissima e affascinante. Così Salomone se ne innamora. E qui parte il racconto particolare che mi è stato fatto da un vecchio monaco, Abraha, nella seicentesca cattedrale copta di Santa Maria di Sion ad Axum, la capitale spirituale della Chiesa ortodossa etiopica. «Salomone cerca di sedurre la regina, ma invano. L’ultima sera prima del ritorno ad Axum, il re, che non vuol lasciarla andare, le propone un accordo. “Vai pure, ma senza prendere nulla da qui, neppure i regali che ti ho dato. Se però porterai via qualcosa dovrai, prima di partire, far l’amore con me!”». In fondo la regina di Saba di oro ne ha a sufficienza, di avorio e pietre preziose in sovrabbondanza e quindi decide di lasciare i regali che le sono stati fatti e accettare la sfida. «Porterò via solo le mie cose», annuncia. Non senza aver riflettuto abbastanza. «Di notte», racconta il vecchio Abraha, con un sorriso che non nasconde un certo compiacimento, «dorme ma, poiché il re per cena le ha offerto cibi piuttosto salati, si alza più volte a bere. Non solo: chiede acqua fresca anche prima di partire. Ha appena superato le porte di Gerusalemme che re Salomone la rincorre con un drappello di cavalieri: “Ferma. Stai portando via la mia acqua che hai in pancia”». Incastrata dal furbissimo sovrano, Makeda, che intanto si è convertita alla religione ebraica, deve cedere alle lusinghe, non certo controvoglia («Anche Salomone era bellissimo», sottolinea Abraha, stavolta serissimo). Il potente re in una notte la mette incinta e dalla loro unione nascerà Menelik I, il futuro primo imperatore di Etiopia, ebreo. La regina di Saba resta inizialmente a Gerusalemme con il suo amante, ma poi decide di tornare ad Axum. Si porta via il piccolo Menelik e i doni del sovrano. Che le dà un regalo in più: un’arma speciale che impedirà agli assalitori di disturbare il suo viaggio, la mitica Arca dell’Alleanza. Una grande cassa, rivestita all’interno e ricoperta all’esterno di fogli d’oro. Custodisce le tavole dei Dieci Comandamenti che Dio consegnò a Mosè sul monte Sinai. Chi la tocca muore. «La regina tornò ad Axum e da quel momento noi custodiamo l’Arca», sostiene orgoglioso il monaco, i cui vestiti sono impregnati d’odor di incenso. Il preziosissimo cimelio è conservato in una palazzina a forma di parallelepipedo senza finestre, sistemata in un recinto accanto alla cattedrale di Santa Maria di Sion, vicino alla spianata degli obelischi, le enigmatiche stele – più di trecento – che fanno di Axum uno dei siti riconosciuti dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità. La più grande, di granito, ha più o meno 1.700 anni, è alta 24 metri e pesa 160 tonnellate. Scolpita su ognuno dei quattro lati, ha anche finte porte e finestre. La cima non è piramidale o conica, ma smussata e circolare. All’interno della palazzina, c’è l’Arca dell’Alleanza, che può essere ammirata solo dal monaco che la custodisce. Da quando assume quest’incarico il sant’uomo non esce più dal recinto fino alla morte: ogni giorno qualcuno gli porta il cibo e l’acqua. Si muove da lì solo una volta l’anno, il giorno del Timkat, l’epifania etiopica, il 19 gennaio quando l’Arca, sottratta alla vista del pubblico, perché avvolta in una coperta pesante di broccato, viene portata in processione. Chiedere di vederla è impossibile. Nemmeno il papa copto, Abuna Paulos, mi ha dato il permesso: «Non la posso vedere neppure io», mi ha confessato divertito dalla mia sfrontata richiesta in un’intervista nel 2005, quando eravamo all’aeroporto di Axum ad accogliere l’obelisco che era stato trafugato in Italia durante il fascismo e stava rientrando in Etiopia per essere restituito ai proprietari.

Un luogo di piacere e saggezza. Durante il Timkat, i cortei con in testa i dignitari religiosi con tonache, copricapi e ombrelli parasole di broccato muticolore si snodano tra canti e balli religiosi, tra nuvole di incenso aspro e pungente. Il rito è toccante e i partecipanti sembrano colti da una sorta di ispirazione divina. I movimenti sono lenti, quasi studiati, come la liturgia millenaria e arrivano fino al cuore dei fedeli. È un tripudio generale tra preghiere cantate e zaffate di profumi orientali, spesso troppo dolciastri. Gli uomini sfilano in gruppi diversi da quelli delle donne, che si muovono nei tradizionali vestiti bianchi recitando orazioni e cantando. Cerimonie simili si svolgono in tutto il Nord dell’Etiopia, anche a Lalibela, la città sacra con undici chiese scavate e intarsiate nella roccia. Il Timkat viene festeggiato anche nei monasteri sui cucuzzoli delle montagne o sulle isole del Lago Tana. Quasi tutti però severamente vietati alle donne. Tutti conservano biblioteche di inestimabile valore culturale. E custodiscono i misteri di queste terre. Già, come la leggenda di Prete Gianni, un altro enigma dell’Abissinia. Durante l’impero Romano, come racconta l’approfondito libro di J. Innes Miller Roma e la via delle spezie, fiorivano i commerci tra il bacino del Mediterraneo e l’Estremo Oriente. I rapporti economici erano stretti e i mercanti raccontavano storie incredibili dei Paesi che avevano visitato. Attorno all’anno 1000 affiora quella di un sovrano indiano, ricchissimo, potentissimo e cristiano, “Presbyter Johannes”. India, Cina, Persia, Africa a quei tempi erano un po’ la stessa cosa. Già alcune cronache disegnano questo re-sacerdote come “Nestoriano”, cioè cristiano delle origini, quando la credenza dominante assegnava a Gesù solo la natura divina (fede ancora mantenuta dai copti etiopici). Solo al concilio di Calcedonia, nel 451, infatti, era stato stabilito che Cristo avesse doppia natura, divina e umana. La presenza di Prete Gianni viene rafforzata qualche anno dopo, quando il misterioso sovrano – che sosteneva di vivere in un immenso paradiso terrestre popolato di strani animali, draghi, piante maestose e profumate – spedisce una lettera all’imperatore di Bisanzio Manuele I Comneno (1143-1180) che a sua volta la inoltra a Federico Barbarossa. Nelle corti europee si scatena l’immaginario. Un missionario sostiene nel 1329 che Prete Gianni è in grado di fermare le acque del Nilo in uscita dal Lago Tana con delle chiuse particolari, le porte di ferro, e per questo il sultano d’Egitto è costretto a pagargli 500 ducati d’oro. Si pensa al regno di Prete Gianni come a un’oasi di pace, di serenità ma anche, con un pizzico di malizia, a un luogo dove si può peccare senza essere puniti. Insomma un luogo di liberazione dove goduria e piacere si mescolano a saggezza e meraviglie. Prete Gianni appariva così lontano che quando furono scoperte le Americhe, tutti si lanciarono verso il Nuovo Mondo, mentre al vecchio, che tanto aveva affascinato per tanti secoli, nessuno pensò più. L’Etiopia, isolata sugli altopiani di 2.000 metri e difesa dai bastioni delle sue cime impervie che l’avevano protetta dall’Islam, tornò nella solitudine primordiale per sopravvivere indisturbata con le sue tradizioni e i riti ancestrali, il concetto nestoriano della natura di Cristo, i pregiati broccati, i dipinti naïf senza prospettiva, le cerimonie sardanapalesche, i canti sacri, i profumi, le chiese con le vetrate multicolori, gli ombrellini variopinti con i ricami d’oro.